giovedì 17 novembre 2011

EST

Nevicava al confine tra L’Austria e la Repubblica Ceca. Lei smarionettava incerta sulla lastra di ghiaccio vicino al motel, mantenuta in piedi da fili invisibili, illuminata dai fari delle auto mentre cercavano un parcheggio tra gli enormi cumuli di neve, come un cane cerca la porta aperta nel freddo della notte. I capelli biondi si impastarono con i fiocchi di neve, divennero lucidi filamenti e le ragnatele bagnate imprigionarono il ronzio dei pensieri dell’uomo.
          


            Praga non era il luogo migliore per fuggire, popolata com’è da giovani pieni di speranze. Per fortuna il freddo, ancora pungente, lo riportava a un impegno di resistenza più che alla semplice vacanza.

Davanti alle pareti della sinagoga, completamente ricoperte dall’elenco dei nomi degli ebrei morti nei campi di concentramento, cercò un nome che potesse fargli pensare di essere la reincarnazione di un sofferente del passato, un recluso, un deportato, di uno qualsiasi dei bimbi di Terezin.



Cercava il riferimento anche tra i convitati di pietra, tra le statue nere e lucenti di riporti in oro, e attendeva il segnale per salire su di una piattaforma disabitata. Il legame pesante con il suolo lo incatenava; neppure la ciocca leggera di un lieve pensiero.
Scorre e si perde; il sangue limaccioso della Vltava andava incupendosi ingoiando le luci circostanti e l’ombra del Karluv most. Finalmente arrivò il segnale. Si unì ai compagni di pietra del ponte Carlo restando nell'attesa di trasformarsi in apostolo della confusione.




La ragazza incontrata al motel aveva gli occhi azzurri, la carnagione bianchissima e ora lo stava osservando. L’esperimento alchemico era riuscito. Dalle pietre scure e fredde uscì un lampo dorato che risalì la collina puntando decisamente un bar turco.
Appena entrò vide scatole di dolciumi illustrate con fotografie e disegni della Cappadocia, del ponte di Galata e il lago di Van.

Pavlìna, Jaroslav, Helena, Eliska, Roman, Antonìn, Karel, Petr si baciavano allontanandosi per sempre uno dall’altra. Alzò gli occhi dal boccale vuoto di birra, per un attimo si sentì estraneo a quanto stava accadendo intorno a lui. La fisarmonica intercalava musiche slave a valzer e stornelli. La cameriera lo guardò incuriosita, percependo la lontananza indagò con discrezione cercando di capire dove fosse ammarato il pensiero dell’uomo, e lei paziente aspettava che tornasse nel mondo dei vivi per ordinare qualcosa.

I visi intorno si davano il cambio in un’entrata freddolosa e un via vai ubriaco, cercò per attimo di ritrovare il viso noto e misterioso che ancora portava impresso. Tentò di rivestire le forme dei corpi estranei con accenni di lei. Attorniato dagli spassiba, gli excuse me e i pas de quoi, cercò il profilo inventato in quel vuoto-pieno cosmopolita. Vide lunghi capelli che potevano dare una somiglianza accettabile. Occhi azzurri lievemente miopi e profondi oltre le lenti ovali. I suoni tzigani arabescavano l’aria fumosa riportarono il ricordo improvviso degli avi nomadi e chiese un bicchiere di svareni vino. Maledicendo l’alba e il cerchio alla testa uscì.

E’ ancora troppo presto per le rose nel Parco di Petrin e la buona stagione è in ritardo. Poco lontano, seduti su di una panchina la coppia di fidanzati continuava a chiedersi che cosa rimaneva della gioia del passato. Rovistavano parole dimenticate salvandole in extremis dal demone della dimenticanza. I due ragazzi si erano dati appuntamento in quel luogo per parlare del futuro, ma è troppo presto per vedere le rose sbocciare nel Parco di Petrin ancora congelato.









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