PER BRUNO
È come coltivare un fiore stupendo in un vaso troppo piccolo, così vedevo e sentivo dentro di me il dolore per un padre ammalato…
Non si può spiegare l’emozione che si prova ad alimentare il proprio padre sfinito in un letto – rantolante ma con lo sguardo attento e vigile che dispensa consigli in silenzio – occhi che a volte mi supplicano di andarmene ed altre volte di rimanere accostato il più possibile – ancora più vicino in un silenzio carico di paura e ancora fierezza – senza mai perdere il senso di decoro – nel disfacimento lento e inesorabile che cambia il colore dei suoi occhi dopo aver modificato il respiro – l’appetito – il sonno – e il suo corpo diviene ogni giorno sempre più scarno si affievolisce e scompare nel letto inabissandosi sempre di più – come se si ritirasse all’interno per contare le costole e le vertebre – e il cuore – con fatica scendeva nel fondo - alla ricerca di un qualche cosa - forse di quel luogo dove alberga solo la leggerezza dell’anima…
Ci sono giorni che entrando nella sua camera – lui in quel letto di sempre dove con mia madre mi hanno concepito – mi viene alla mente un quadro di un agonizzante circondato dai parenti – un immenso buio dal quale fuoriesce il viso dell’ammalato, le mani bianche e luminose – e poi gli sguardi addolorati della moglie anziana seduta al suo fianco e dei figli in piedi leggermente curvati verso il padre che li sta per lasciare.
Abbandonare la corsa – prendersi un attimo di riposo – tirare il fiato …
Sono scomparse le rughe dalla sua fronte e le sue mani diventano ogni giorno sempre più affusolate e morbide come se nella vita avesse lavorato come impiegato di banca – nella realtà quelle mani hanno conosciuto martello e chiodi, avevano confidenza con sassi e cemento, calli e setole…
Quelle mani identiche a quelle di suo padre quando morì in un pomeriggio grigio topo spruzzato di nero impenetrabile a tratti…
La notte non finiva mai ed io continuavo ad alzarmi ad ogni inciampo di respiro ad ogni parvenza di parola che tentavo di interpretare tra i rantoli e le apnee improvvise – come se parlasse una lingua a me sconosciuta tentavo di interpretare frasi compiute nel gemito del suo sospiro – la notte passava atrocemente lenta – e continuavo a sistemare in modo più comodo il suo corpo diventato quello di un passero implume – una barca sventrata dai marosi – la sua pelle come la crosta di un pianeta lontano – in un'altra galassia – colpito da ripetute tempeste cosmiche che gli trasportavano sul corpo organismi estranei che andavano a formare crateri sulla sua pelle secca – squamosa e allo stesso tempo infantile – morbida a tratti.
Dove sono i francesi continuava a chiedermi – il fratello emigrato a Marsiglia poco prima della fine della guerra – coprimi - scoprimi - alzami - devo bere - caldo - freddo… il suo mondo era diventato una serie di bisogni basilari – egocentrico involontariamente come un bambino – bisogni veri e ansie alimentate dalla quantità di ossigeno nel cervello…
Andava avanti con la carica del suo cuore forte che lo aveva aiutato tante volte nella vita – un cuore grande e …uomini così non ne nasceranno più – continuava a ripetere mia madre.
Ed io per rincuorarla le dicevo dei cadaveri per strada che avevo visto a Calcutta e in altre parti del mondo – agonizzanti e soli per strada senza nessuno vicino… la morte privata e quella pubblica – la morte occidentale – le morti di aids africane – le morti sopra i gommoni oppure sotto i bombardamenti – quante morti per una sola …
Nel sonno chiamava la madre – mia nonna – con voce chiara e ferma come se la vedesse davvero vicino a lui – e sempre la parola dei vecchi… quando vediamo la madre vuol dire che la fine è vicina – perché nell’agonia una madre ti viene a cercare – quasi a riprendersi la sua creatura – la carne – le ossa – il sangue che lei a duplicato – ha soffiato la vita dentro un altro corpo lo ha alimentato con i suoi seni e lo ha abbandonato nelle lacrime per poi richiamarlo a se quando viene il tempo.
Le sue rughe ora me le ha regalate e la sua fronte è diventata un panno da biliardo.
Quanto ancora – quanto tempo e vestimi e dammi un po’ di vino – e alzami – e usciamo… lui mi lascerà.
Di sicuro non penso al momento del rincontro se mai sarà possibile – a quel ritrovarsi – o meglio pensare di poterlo fare in un futuro – e ridargli la mano come quando lui mi faceva provare la temperatura del mare – o mi innalzava di getto per farmi sedere sulle spalle – a cavallina - e schioccava la lingua sul palato per farmi assaporare l’andatura da concorso ippico di uno splendido cavallo dei suoi film preferiti con gion vaine – lanciato sulle praterie...
Lo osservavo nella notte in silenzio e mentalmente parlavo con lui perché rispondesse al mio dubbio… di essere lì in quel momento ma anche desiderare di andare via – scomparire – non vedere il dolore – fuggire i pianti degli altri – le paure intorno – l’odore di lisoformio – e medicine e pezze umide di urina – e il sangue rappreso di vulcani estinti…
Che voragine l’anima triste - getti un sorriso ma non raggiunge mai il fondo, non tocca nulla di solido – rimane un vapore intorno di lacrime salmastre…
13 giugno giorno della sua morte - freddo – immobile - quasi sorridente.
Quale cassa preferisce e la stoffa e il cuscino…
Che vuoto incolmabile mi sta lasciando l’uomo della parola, del sorriso, della battuta – che parlava anche quando masticava – sempre curioso e gentile - di quelle gentilezze di una volta - silenziose ma cariche di frasi e gesti e suoni in dialetto che rafforzavano l’assenso o la contrarietà con timbri arabi e francesi.
Anima bastarda né ligure e neppure toscana – fatta di roccia e mare – provinciale e universale al contempo – i racconti di Matapan e la croce di guerra – carpenteria - matematica e muratura - callosità e carezze.
Questo era mio padre… e questa è stata la mia fortuna.
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