Sri Lanka /Ceylon
La lacrima dell’India…
L’isola verde si avvicina e ne intravedo la sagoma scura dal finestrino dell’aereo. Mancano pochi secondi all’atterraggio. I rumori metallici cedono il posto ad un ronzio in rallentamento.
Il sopore si dissolve lentamente e mi lascia le briciole di un sogno rimasto interrotto ed una domanda lievita senza motivo apparente: - e se questa fosse la terra della mia vita anteriore?
Tra gli sguardi assonnati di cingalesi e tamil non mi riconosco, riconosco invece gli sguardi umili, quello sì. Centinaia di uomini e donne rientrano a casa, un rifluire di gente dall’Europa ed io sono solo in una moltitudine di ritorni. Sono qui come dice De Andrè: per lo stesso bisogno del viaggio, viaggiare…
Xeno
Emerge dal buio, ricomponendo frammenti di muscoli e nervi… straniero in forme e sostanze: un animale fuori luogo, una roccia di elementi alieni, un bolide stellare precipitato sulla terra. Lo straniero è dissonanza di suoni, è solitudine che diviene curiosità, è una risata interrotta che vuole partecipare all’ilarità generale, è un colpo di pennello sfuggito al pittore distratto. Combatto il ruolo dell’estraneo, dello sconosciuto, del diverso; tento di appartenere ad ogni terra, ad ogni realtà, quasi a cercare il sogno laico dell’unione universale… e così, in silenzio, mi mescolo al tormento e al flusso ridanciano.
Viaggiatori impazienti - alla ricerca d’attimi di gioia - aspirano molecole d’estasi e fumi di incenso. Alitano respiri di fantasie realizzate e sogni di domani.
Colombo
Ore quattro del mattino. L’atterraggio è avvenuto nel buio quasi completo. Intorno a me tutto è intorpidito e assorto nel caldo umido della notte profumata. La temperatura opprimente mi investe e l’alito caldo riga la camicia che diventa una lastra esposta ai raggi x, una sindone rivelata dal sudore copioso. I suoni restano appesi a mezz’aria, incollati ai profumi tropicali e accompagnati da saluti di parenti e amici che, in misteriose lingue, riabbracciano i famigliari. Sono arrivato nella lacrima dell’India, così è chiamata Sri Lanka per la sua forma a goccia. L’ignoto è a pochi passi, mescolato con la notte…
Le luci del terminal arrivi formano un preciso confine con l’esterno, una netta separazione tra dentro e fuori. Oltrepasso quella frontiera luminosa e decido di stare al gioco.
E’ Domenica e la luna è piena; oggi è il giorno della Poya, la festa del plenilunio. Percorro le strade buie, la natura intorno è orlata dalle ombre della fitta foresta, i suoni degli uccelli penetrano attraverso lo spiraglio del finestrino; l’alba è ancora lontana. Sul ciglio delle strade le famiglie vestite a festa si recano ai templi. Abiti bianchissimi nel colore pece della notte e la folla in movimento si discioglie in ombre sospese nel vuoto. Converso con l’autista; il suo inglese è un misto di miele e musica, non sempre comprensibile. Transitano quiete risaie e caotiche cittadine. I corvi, grandi come aquile reali, si inseguono tra i rami di una magnolia gigante e i pappagalli si agitano tra le fronde di una palma, in un mondo di ali in movimento. Trasportato come in un sogno lievito a Kandy, il cuore culturale dell’isola. Non riesco a stare fermo, nonostante la fatica del viaggio, nell’accogliente sala da pranzo della famiglia che mi ospita.
Deposito lo zaino nella mia stanza e quasi mi precipito alla scoperta di ciò che ora è chiaramente illuminato dal sole. In silenzio, rapito dal biancore dei luoghi di culto e stonato a causa del caldo umido, entro nel Tempio del Dente. Il tempio prende nome da un’urna dentro la quale, secondo la tradizione buddista, è conservato un dente del Buddha. Il luogo sacro sorge all’interno di un parco vicino al lago ed è completamente recintato e protetto da guardie armate. Gli ingressi sono presidiati da soldati e soldatesse che controllano tutti i visitatori, minuziosamente dopo una coda interminabile si sottostà a domande di rito e all’ispezione dei bagagli. La paura di attentati è una costante; la lotta tra i tamil, la minoranza induista della popolazione che abita prevalentemente il nord del paese, ed il governo, è respirabile. Attentati e ritorsioni sono all’ordine del giorno e tutto ciò comporta un’eterna aria di diffidenza e occhiate sospettose. Si è creata una situazione di estrema confusione, ed è molto più semplice capire il codice buddista “Mahavasma” che spiegare perfettamente le cause reali di tutto questo.
Il tempio è circondato da un fossato e il muro perimetrale è scolpito in rialzi arabescati. Il padiglione del dente è completamente al buio, rischiarato soltanto da lampade a olio e ceri votivi. La statua del Buddha vigila su di un’urna di metallo lucente che cela la reliquia dell’Illuminato; per paura di attentati e furti, il dente autentico è tenuto segreto altrove.
Vado a piedi scalzi sulla sabbia e petali di fiori; un elefante, all’ombra delle torri, è legato nella attesa della cerimonia tradizionale conosciuta come “il battesimo dell’elefante”. Le famiglie accompagnano i figli al tempio, e i bimbi per tre volte, in senso orario, passano sotto la pancia e la proboscide dell’animale, questo rito assicura un felice avvenire.
I monaci buddisti transitano con gli ombrelli aperti per ripararsi dal sole e io mi perdo in fantasie, tra miniature affrescate e zanne di elefante minuziosamente intagliate. Intorno a me è un continuo agitarsi di piedi, di sari svolazzanti e sorrisi compiti…
Nelle strade della città si accalcano i venditori di stoffe, le litanie mercantili sono imbeccate dal rombo delle auto e il sonoro altalenante è ritmato dal battito delle loro mani. La Star Light Guest House è quasi un paradiso nella canicola pomeridiana, prendo familiarità con il luogo dopo una doccia e una sosta all’ombra. Tento rilassamenti diversi provando a mitigare gli effetti del fuso orario. Mi tenta uno spettacolo di danza che si rivela eccessivamente improvvisato. Al termine della performance, un gruppo di uomini mangiafuoco si prodigano in esercizi circensi e concludono con una camminata sopra i carboni ardenti. Intorno a me gruppi di turisti organizzati; per un attimo dimentico di essere solo. Quando esco è tramonto inoltrato, il cielo è rosso e la notte in agguato. Mi incammino lentamente e sulla strada sfrecciano camionette gremite di gitanti-pellegrini che mi salutano sbracciando. I saluti e il tramonto creano una dolce nostalgia…
Fiancheggio il lago buio; la polvere si alza dalla strada trafficata, gruppi di persone attendono autobus e risciò ed io scivolo silenzioso diretto alla mia cena misteriosa. Un black out improvviso mi obbliga a terminare il pasto a lume di candela. Sono l’unico ospite nella casa, e questo mi crea un po’ d’imbarazzo data l’eccessiva curiosità dei membri della famiglia. Mi sento una cavia da vivisezionare, un osservato speciale, un fenomeno da baraccone, una mosca bianca o come direbbero qui: un varano bianco. Zuppa di lenticchie, pollo, riso e birra.
Respirare la vita. Terre di muco e polvere - movimenti continui - presenze eterne e mani tese. Terre che mettono in discussione…
I rumori di casa e il pianto di un bimbo mi riportano nel mondo reale. Non è un sogno. Una melodia cantata da monaci lontani e l’odore di fiori esotici, mi strappano dallo scrigno del sonno dove sono scivolato stanco anche di pensare.
La colazione è pratica di casa e così, seduto sopra uno scranno enorme, sorseggio il tè; l’arredo mastodontico è sicuramente parte di un’antica eredità, è così enorme che mi fa sentire un ciclope amorfo, un gigante mancato, smarrito tra i braccioli che arrivano alle orecchie. I due ragazzini tuttofare gironzolano per casa e a volte li scopro a fissarmi incuriositi. Questa mattina, molto prima dell’alba, li ho visti dormire su di una stuoia fuori della mia camera e sprofondati nel sonno si tenevano per mano.
Decido di partire per Polonnaruwa e le città antiche del nord. Il cielo è oscurato da nuvole uggiose ed il cuore si alleggerisce non appena mi ritrovo sulla strada. La stazione dei bus con aria condizionata è la meta che non raggiungerò mai. Tento di decifrare una parola comprensibile, tra cartelli e indicazioni in alfabeto cingalese, ricerco un indizio che possa lontanamente denunciare le destinazioni dei mezzi pubblici disseminati casualmente nel capolinea. Arrivo così su di un bus e di aria condizionata non se ne parla. Lungo la strada rallentiamo a causa del traffico, ma soprattutto per il passaggio di elefanti, varani e scoiattoli suicidi. Lentamente si apre davanti a me il giardino dell’Eden ed è come attraversare uno zoo all’aperto. Sono circondato da una natura non domata, un paradiso preumano che si nutre di energia respirabile. Un verde intenso e animali sempre in movimento. Una natura non delimitata, un tutt’uno di pratiche arboree, un intreccio di fiori e rami che si intersecano alimentandosi a vicenda. Le fronde si fondono in abbracci inestricabili e le strade faticano a rimanere visibili per lungo tempo.
Nella foresta regna il controllo di abbondanza e carestia - una associata sopravvivenza - un’unione perfetta al di fuori dell’uomo.
L’insetto ferito a morte risorge con nuove sembianze. Da dove proviene questa energia nascosta, palpabile, questa forza tesa tra i rami e gli anfratti in penombra. Enormi massi sorgono improvvisi e appaiono vivi di luce propria, con una luminosità sbiadita, in sordina. I raggi del sole trasmettono poteri magici e percorrono il sinuoso cammino delle mangrovie, delle erbe aromatiche, di alberi accesi di fiori d’ibisco. Forme indistinte fuggono nel folto della jungla. Non appena la terra si riscalda, i fiori risorgono con una tensione quasi muscolare; gli steli rivolti al mattino si risollevano come burattini e resuscitano mossi da un filo invisibile.
Nella piega di una foglia enorme brilla una piccola goccia, un diamante tratto in inganno da quel verde rassicurante, purtroppo la palma non riuscirà a trattenere per molto quel gioiello effimero…e così evaporano i sogni della notte.
I primi insetti corrono a rubare l’umido nell’oscurità, svolazzano come pulviscolo alzato dal vento, le piccole forme scure ronzano attratte dalle corolle, e l’esile bambù produce misteriosi fruscii di crescita.
Il fiume raccoglie rigagnoli di sangue trasparente e sulle acque dell’oceano giunge il segreto delle foreste…la chiave del Regno.
Quanto amore è racchiuso - nel rumore del frutto del mango che cade nel fiume veloce. Impetuoso e duraturo amante...
Un piccolo varano sale su di un tronco e nervosamente lancia la lingua collosa come una saetta. La natura si fonde in un unico moto d’espansione, un'unica pulsazione: serpenti velenosi e frutti della passione. Sembra impossibile, in queste terre, trovare il tempo per la guerra. E se la terra si ribellasse? Per punizione occultasse i suoi frutti e le foglie e i fiori? Per vendetta ogni cosa potrebbe sbocciare all’interno, nel profondo sottosuolo, lontano dalla nostra vista e dalla nostra rapacità.
Dopo quattro ore riemergo a Polonnaruwa, nella Devi House; un caseggiato nella foresta, di poco discosto dalla strada principale. La famiglia gentilmente mi ha offerto la stanza migliore. La temperatura lontano dalle colline è afosa e il caldo invisibile imprigiona ogni cosa, ogni pensiero, ogni azione. Una televisione drammatizza, con un comico sonoro concitato, la solita soap opera a puntate. La città si risolve in una lunga strada fiancheggiata da case e capanne, piccole stradine polverose si distaccano per i villaggi sperduti nell’arido ambiente circostante. In un imitazione ben fatta di un autosalone all’aperto, le scimmie saltano da un cofano all’altro giocando con i tergicristalli delle auto. Le rane hanno occupato il posto dei motori e i pianti di uccelli notturni sembrano rimpiangere il sole cocente, mentre i pappagalli festeggiano il fresco notturno.
Gli elefanti conducono i turisti a provare sensazioni kiplinghiane ed i colossi bardati a festa rollano il cassero di legno legato al dorso. I turisti bianchicci esultano, invano tentano di mettere a fuoco le immagini attraverso videocamere ballonzolanti.
Polonnaruwa
Il parco archeologico è visitabile in bicicletta, è molto vasto ed è molto caldo. I ruderi appartengono all’antica città di Polonnaruwa fondata dai re Chola, provenienti dall’India nel 200 a.c.
In una parte del sito il Buddha è disteso nella morte, scolpito in un unico blocco di roccia. Lentamente l’energia esce dal suo corpo, libera il “potere” attraverso le linee parallele scolpite nelle vesti, la posizione è composta, raccolta, ed il viso rilassato accenna ad un sorriso di pace. Intorno, altre sculture rappresentano il Buddha in piedi e nella posizione del loto, sopra altari improvvisati nelle rocce, restano petali di fiori e ciotole annerite dai lumi ad olio. Il luogo è frequentato abitualmente dai pellegrini. Il flusso dei turisti va e viene cadenzato dall’arrivo di torpedoni organizzati. Per il resto del tempo tutto è silenzio; le grandi farfalle tornano a posarsi e i suoni della foresta riconducono una musica aerea di modulazioni animali.
Piccoli pappagalli si inseguono tra i rami del frangipane.
Mi disperdo tra templi e palazzi, scopro le antiche costruzioni pedalando lentamente in un caldo tremolante.
I dagoba sono tumuli emisferici, si innalzano dalla foresta come lance acuminate puntate al cielo, dalla struttura principale fuoriescono i pilastri centrali che sono la rappresentazione dell’asse terrestre. L’intera struttura assomiglia ad una coppa rovesciata: il dagoba è un’evoluzione architettonica dell’originario stupa che, da reliquiario dei resti del Buddha, diviene una semplice rappresentazione dello stesso.
Nei prati i contadini tagliano l’erba, utilizzano falci che ricordano le mazze da golf e instancabili ondeggiano la lama avanti e indietro.
Mi diverto ad osservare i turisti inseguiti da pifferai magici e venditori di cocco. Riconosco le piante sensibili al tatto, di fronte al Palazzo del Re, e accarezzo le foglie a pettine che si richiudono accartocciandosi. Le orchidee crescono parassite di un grande albero del pane, nella cui ombra giacciono bufali stremati dal caldo. Gli ombrelli sgargianti punteggiano di colori frullati insieme le rovine di mattoni rossi delle costruzioni medievali e le candide divise delle scolaresche tracciano una scia abbagliante…
Mi disseto con un cocco dolcissimo e pedalo sino a Kaduruwela per avere informazioni dell’autobus di domani.
L’innocenza dei germogli non attizza il fuoco…
La magia dei luoghi mi dà rapimento. Una ragnatela di incantesimi e brividi di caldo, trasforma in miraggi improvvisi le impronte di piedi scalzi tra i minuscoli quarzi taglienti arroventati dal sole. Sopra le sculture millenarie, una famiglia di scimmie si trascina quasi danzando sulle vesti scolpite. I petali dei fiori, orfani delle litanie religiose, rimangono ad ingiallire sino a diventare polvere finissima che si mescola ad altre polveri, e l’insieme delle morti disseccate riempie la terra di impalpabili canzoni del ricordo. Che cosa rende indimenticabile un luogo?. A volte è sufficiente un suono, oppure un profumo che pervade l’aria, avanzando nelle brezze serali…
Fiori e rapimenti d’animo. Vita e morte. La vita è pratica d’invecchiamento…
Nella stanza da pranzo sono contornato da fotografie di eventi privati: matrimoni in costumi sfarzosi, compleanni, istantanee di persone partite per sempre. Nei tratti ingialliti di un vecchio ritratto ritrovo la netta somiglianza con i discendenti che, in complicate parentele, riportano rumorosamente il mio pensiero ai ritmi quotidiani. Le luci della casa si spengono ed io resto seduto nel piccolo giardino che si trasforma in una arena, dove i cani inseguono bestie fantastiche nella notte. Il buio vibra e diventa preda di animali notturni; nell’incanto di fruscii alieni, decido di aspettare che la luna fuoriesca dal muro delle palme di fronte, e l’incupirsi del cielo racchiude il senso preistorico della solitudine. Il desiderio del fuoco, di un riparo sicuro, di un bozzolo di pace, dove sognare di essere vivo nell’attesa del sole.
Il sogno della natura si è esaudito nella metamorfosi dei colori…
L’alba ricompone ogni cosa smarrita nel regno del buio: le piccole migrazioni di pappagalli e pipistrelli, i negozi scalcinati riprendono vita con l’esposizione delle mercanzie, e i guk guk della notte diventano suoni argentini. L’ansimare delle rane, si confonde con il ripetuto cinguettare di piccoli uccelli che assaltano i sacchi di riso e i gechi lentamente si ritirano nell’ombra.
In quel preciso istante la mia presenza ritorna palpabile, accompagnata dai ripetuti: – sir – good morning – mister – how are you? - pronunciati con cadenze insistenti.
Sigiriya
L’autobus da Polonnaruwa mi scarica su di una strada secondaria e anonima. Contratto per un risciò che pare sia diretto a Sigiriya. Il paese in realtà non esiste e l’ambiente è riarso e polveroso.
Alcuni alberghi pretestuosi, restano nascosti lontano dal centro abitato, diventano isole di pace omologate ad altre sparse per il mondo e solo nei giardini recintati, con lo scorrazzare delle scimmie, è rimasta l’anima di Sri Lanka.
Il Flower Inn è una casa nascosta dalla vegetazione anarchica ed è l’unica possibilità di alloggio. L’antica città di Sigiriya è lontana due chilometri e la grande pietra si slancia compatta dalla pianura; la fortezza rupestre è alta duecento metri e nel parco sottostante sono state riportate alla luce grotte e piscine. Intorno alla rocca sono ancora ben visibili i giardini acquatici e le costruzioni palaziali, alcune strutture sono edificate con l’aiuto di enormi massi.
In una nicchia del monte sono affrescate le “cortigiane di Sigirya”: gli affreschi ritraggono donne a seno scoperto di una dolcezza contagiosa, si racconta che furono dipinte da una sentinella del re nelle lunghe ore di guardia.
La scalinata sale alla “terrazza del leone”. Gli artigli scolpiti fuoriescono dalla roccia e tra le enormi zampe, dove un tempo si trovava l’intero corpo del leone, transitano i visitatori salendo la scala di ferro arrugginito che porta alla vetta. Un tempo l’enorme testa incombeva sopra i sudditi e i pellegrini. Nella parte sommitale sono visibili i resti del palazzo del Re Dhatusena. Il re fu murato vivo dal figlio Kastapaya in un’ala del palazzo, ed il fratello Moggallana fuggì in India; ritornò dopo molto tempo deciso a fare giustizia. Storia e leggenda volteggiano sopra i perimetri di pietre squadrate, l’eco di uccelli rapaci si mescola con le esclamazioni festaiole degli studenti in gita.
L’atmosfera, oltre alla calura mangiauomini, è turistica. La maggioranza dei visitatori arriva con un tour tutto compreso per poi scomparire nel giro di poche ore, e la magia è interrotta dai venditori di cartoline…
Passeggio tra le antiche piscine attorniato da un corteo silenzioso di mucche al pascolo, e osservo le enormi ninfee galleggianti che tracciano percorsi di leggerezza nelle acque limacciose. Mi oltrepassano contadini cingalesi che ritornano a casa e dondolano la testa in un saluto composto. E’ l’ora delle ombre lunghe. Le sagome scure si dilatano, sono indecise se restare nel mondo dei vivi oppure scomparire nella penombra punteggiata di stelle.
La locanda dei fiori
Il vecchio della famiglia, di certo non così vecchio come sembra, si trascina lentamente con il bastone in mano, arranca nel giardino polveroso e scarmigliato in ghirigori casuali. Resto un attimo a pensare quale malattia lo affligge, e ipotizzo che forse è curabilissima in Europa. Pronuncia un perfetto -good evening-, non appena mi vede chino sul tavolo con un libro davanti. Nel giardino adiacente, casuale pure quello, un bambino vocalizza gutturalmente scontri titanici e percuote una palma con un ramo caduto. Parole di fanciullo drammatizzate all’infinito, silenziosi pensieri di vecchi che avvertono il tempo scivolare veloce, ed ogni giorno stringono il sarong in vita, sempre di più, in un nodo che evidenzia la secchezza di corpi magri e nervosi.
La tavola di fronte a me è arredata con tovaglioli ripiegati a barchetta, le farfalle ed altri insetti caduti si muovono agonizzanti, trasportati da linee di formiche instancabili nell’immensità plastica dei fiori stampati. Tutto è pronto, per ospiti che non si fermeranno in questo avamposto diroccato dal tempo e dall’incuria, in questo fantasma di casa svenuta tra la rocca e il deserto di boschi aggrovigliati. Un elefante transita sulla strada di ritorno dal lavoro nella foresta, l’uomo che lo guida è seduto sul dorso, è così minuto che l’immagine da favola si trasforma in una caricatura. Il vecchio pronuncia passi del corano con una melodia assorta e malata nella voce. La casa è continuamente visitata da cani e gatti che entrano ed escono liberamente. Miriadi di minuscoli insetti fremono racchiusi dentro lampade di carta stile cinese, i lampadari penzolano come nasse da pesca e inglobano le prede galleggiando nell’aria fresca della sera.
Gli ultimi bus hanno lasciato il paese diretti a Dambulla e Kandy, la giostra di arrivi e partenze si interrompe di colpo in un silenzio senza più attese. I venditori in strada si rilassano e sorridono. Gli intagliatori di maschere e di enormi elefanti di legno si scrollano di dosso trucioli di tek e balsa, frammenti di corteccia di tamarindo, di rosa e d’ebano. Si alzano lisciandosi il sarong, salgono sulle biciclette e puntano per sentieri diversi con saluti impastati di segatura. Un cucciolo di cane trascina una lunga corda al collo, è così imprudente che il sollazzarsi tra le radici lo imprigiona e rimane immobile, legato e vinto ad uggiolare.
Provo a tracciare la scena, come a ricostruire un crimine.
Disegno sagome con il gesso a delimitare i cadaveri dei miei pensieri; l’osservatore è seduto sotto lampade di carta. Solo. Unico ospite. Il tè si è freddato in una teiera provata dal tempo. Dall’interno della casa un canto coranico. All’esterno, un piccolo tabernacolo di lamiera e legni di scarto raccoglie petali e litanie buddiste pronunciate a mezza voce da una delle donne di casa. Le sedie di plastica rendono moderna questa costruzione cubicolare. Ogni tanto sbuca un ragazzino, poi un altro, quindi un figlio più grande. Forse mi sono imbattuto in una comune e sto perdendo solo del tempo a trovare un nesso generazionale. Le pareti esterne, tinteggiate di verdolino, contrastano con il rosso dei sentieri d’argilla ed il verde più scuro della fitta foresta. Nella lampada–nassa ora è rimasto imprigionato un insetto più grosso, impazzito dalla prigionia volteggia in un otto volante improvvisato.
…le ali tambureggiano i misteri d’Asia.
L’odore dei fuochi a legna si disperde dalla cucina mescolandosi con i profumi di ibisco. Il mio alloggio ha una veranda esterna e un tavolo dell’altezza giusta per scrivere. La cena è a base di ananas e banane. Le luci di casa sono tra le poche indicazioni di vita nella notte nero seppia, emanano un debole segnale luminoso in questo villaggio di frontiera, nato e vissuto all’ombra della Rocca Imperiale. E’ come se tutto riposasse, scosso soltanto dalle memorie di echi lontani: il Buddha errante, le scorribande di Ashoka, che estese il suo regno dall’India sino in questa terra a forma di lacrima; terra di pietre preziose. Ceylon, i racconti di Marco Polo e generazioni di marinai portoghesi diventati vecchi nelle terre d’avorio…
Gli eserciti invasori e gli elefanti bardati a guerra avanzano nella piana intricata di acacie, le chiome si piegano sotto la spinta degli animali. Lo smuovere, il frantumare di alberi, i rumori di smisurati animali al trotto…restano udibili nell’aria della sera.
I rumori recenti non sono meno terrificanti: gli anni settanta e ottanta con il paese a ferro e fuoco, i tamil, la destra, la sinistra, i conservatori. I sogni dell’Eelan, la libera terra tamil. I bombardamenti aerei a Jaffna e le ritorsioni a Colombo. Il partito JVP, Fronte di Liberazione Popolare, non è ammesso alle elezioni. Un vero caos politico.
Nell’attesa di una normalità, il ritornello è sempre lo stesso: - Mia sorella si è sposata a Londra - Mio fratello è emigrato in Canada -Mio zio è portiere d’albergo in Italia.
Coriandoli bruniti, sospinti lontano dal vento, ritornano per le grandi cerimonie, oppure dopo disordini sociali e attentati dinamitardi. Ritornano per rincuorarsi e rincuorare…
Dambulla
Al Dambulla Temple è l’ora della preghiera, un monaco dirige il canto dei giovani lama che seguono una melodia registrata. Eccomi seduto a fantasticare, dopo aver percorso qualche chilometro a piedi per raggiungere il tempio; è primo pomeriggio, ho lasciato Sigirya questa mattina e mi sembra un secolo.
Il tempio scavato nella roccia è splendido, le grotte hanno le volte affrescate e statue del Buddha di tutte le dimensioni. Le sculture lievitano dal buio con riflessi dorati, l’interno è illuminato sommariamente da piccoli flash delle guide. Con una pila in mano mi aggiro a piedi scalzi tra bagliori sfuggenti ed ombre dilatate. Il luogo monastico è ricavato in una larga cengia del monte ed il tetto della grotta è, in parte, la copertura dell’intera struttura, le diverse sale sono comunicanti attraverso un porticato esterno. Lontano sulla valle è visibile un fronte nuvoloso che avanza, ben presto la pioggia tiepida si rovescia rumorosa, vaporizzata dal vento in semi sparsi a raggiera. Le famiglie di macachi si disputano il cibo con salti e corse. Ridiscendo lentamente il monte, l’aria è impregnata dell’odore di terra bagnata… e ritorno a prendere lo zaino depositato in un angolo della biglietteria. La stazione degli autobus per Kandy è uno strazio. Gli stessi abitanti della città faticano a capire quali sono i mezzi in partenza, e le destinazioni restano avvolte nel mistero. Il sole è a picco sulla mia testa, avanzo e mi ritraggo dalla strada, tento di decifrare la parola “Kandy” scritta in caratteri cingalesi…tonde lettere armoniose, tutte curve e cerchi, sono di questa forma perché la scrittura avveniva sulle foglie di palma ed i caratteri troppo spigolosi tagliavano la fibra vegetale. Teorizzando di simboli e segni, come direbbe Barthes, passano le ore. Poi, come sempre, tutto si risolve.
Un macinino ondeggiante, travestito da bus, in due ore mi porterà a destinazione.
Kandy mi riassorbe con cadenze note, avvolge con ritmi conosciuti: il mercato, i suoni, le urla, la musica, la confusione vitale nelle strette strade si trasforma in ingorghi di mucche e gente.
L’energia dei luoghi si confonde con il caldo.
La via principale Dalada Vidiya
Mi concedo pesce fritto e polpette al curry. Sono nell’unico pub della città; “pub” è solo un eufemismo. Le bottiglie impolverate si rispecchiano nel vetro opaco del bancone, le etichette sconosciute si dilatano nell’infinito gioco di specchi. Di fronte a me, la Dalada Vidiya si è scrollata di dosso il traffico delle ore di punta ed ora è trasformata in strada di campagna. In questo palazzo olandese dell’epoca coloniale, attualmente in decadenza, si può bere una birra e perdersi in pensieri osservando l’esterno. Una sfilata di vite diverse, di abiti e condizioni disparate. In questa città spirituale i cani mangiano escrementi…
Un uomo con le gambe enormi e non so dire quante dita nei piedi, chiede la carità trascinandosi a terra. Questo luogo non si avvicina neppure lontanamente all’India, in ogni caso il tentativo volge in quella direzione. Vedo passare spettri di autobus e ne ricordo perfettamente l’odore di metallo bagnato, di ferro cariato…e rivedo la mia immagine transitare, racchiusa da quei finestrini bloccati in spiragli casuali.
Lampi di arancione. Gli abiti dei monaci si colorano dei riflessi del sole.
E’ l’ora del ritorno a casa, la folla muove verso una sola direzione: la parte bassa della città. Sto spiando da un triangolo libero della finestra e non so se provare vergogna o rabbia. Ancora una volta osservo il vivere e il sopravvivere, uniti insieme da essere confusi. Disegno lettere su di un foglio mentre bevo la cosa più costosa da queste parti: la birra.
Sono preda di pensieri veloci. Perché ripetermi all’infinito domande su altre esistenze?. E’ l’aria. E’ l’Asia. Forse è soltanto che scoprire i mondi altrui reca piacere e sofferenza, riporta alla mente il destino, la fatalità, il caso, la sfortuna.
Il pub è oscurato, forse per evitare le critiche dei benpensanti. Una bottiglia pubblicitaria di birra gigante, in bella mostra nella vetrina, assomiglia ad un lingam, il simbolo fallico che rappresenta Shiva nei templi induisti. In lontananza il lago freme di gru e aironi, varani e pesci enormi. Un lampione sulla strada ha trattenuto brandelli di stoffe colorate, sono i residui di una cerimonia lontana nel tempo. Le stoffe e gli stracci, legati alla rinfusa, sembrano detriti di un’alluvione biblica che ha alzato il livello del lago sino a lambire le lampade…le ombre dei sari colorati tracciano percorsi variabili sulle strisce pedonali. I procacciatori di affari si danno il cambio nei luoghi strategici, dove è maggiore il flusso dei turisti. Un ennesimo mondo al maschile; donne minute come porcellane, puliscono le strade e trasportano riflessi di comete smarrite…frammenti minuscoli, estromessi dal mondo arrogante e veloce.
Ecco il ripetersi del copione serale: i corvi imperiali, afflitti in lamenti gracchianti, imprecano contro i risciò a motore.
Inizia a piovere e l’aria si rinfresca con la pioggia inattesa, quasi estranea. Non appena si placa, immagino invasioni di insetti che dalla terra argillosa vestirà ali di meraviglia e fastidiosi ronzii. I banani e il mangostano sono immobili sotto la pioggia, come un gatto accarezzato fremono le enormi foglie lucide. Sulle rive del lago osservo i lenti movimenti dei varani e resto rapito dalle movenze antelucane di questi lucertoloni. I thalagoya, di taglia piccola: si racconta che un tempo la loro lingua fosse molto ricercata e i genitori ne facevano mangiare un pezzo ai figli per favorire la loquacità. Il kabaragoya: grande come un coccodrillo e molto pericoloso, è una specie protetta perché si nutre dei piccoli granchi che risalgono i fiumi e distruggono le piantagioni di riso.
Il bruco si sveglia. Crisalide vogliosa. La sua lentezza ora è viva …muove le ali la farfalla.
L’alba mi riporta i sentimenti controversi legati alla solitudine. Preferisco la confusione, il movimento intorno, il rumore incessante della vita che scorre.
Ritorno al tempio del Dente. E’ il momento della puja, la cerimonia religiosa che con musiche e offerte segna il ritmo della vita interna al monastero. All’esterno cresce l’enorme “bo”, il ficus religiosa, l’albero sacro è un importante simbolo buddista e si racconta che Buddha in persona lo portò dall’India. E’ contornato da un muro bianco e una scalinata conduce ai due piani superiori che lambiscono il tronco, qui sono sistemati i tabernacoli che racchiudono piccole sculture sedute nella posizione del loto. L’albero e la costruzione intorno sono ornati con strisce di stoffa di mille colori. Le preghiere svolazzanti rassomigliano a panni lavati, stesi al sole nei giorni di carnevale…
Impaziente proseguo alla ricerca del codice giusto, del ritmo di questo paese. Guardo, afferro, rubo, carpisco in velocità, cerco l’immersione totale e a volte le cose assomigliano perfettamente ad altre lontane nel tempo. Il ripetersi delle sensazioni. Perché amare terre annerite da tubi di scappamento, terre che si sciolgono in fanghiglie inarrestabili, terre che piangono e si trascinano in un dolore collettivo…
Perché trovarsi sempre al cospetto del sudore e della fatica, faccia a faccia con la morte continua. Perché vivere luoghi che mi pongono in discussione ogni momento…?
Sarà forse perché questi luoghi mi danno il senso della terra originaria?
Ma quali indagini, nelle terre di confine, nei buchi del mondo. Che altro indagare. Le barche di giunco sono fatica e sangue, altro che pittoresco. La richiesta di perdono è generale. Un coro di esseri stanchi chiede giustizia, una luce, un cambiamento. Ma la giustizia non arriva, i giorni dei sofferenti restano gli stessi per mille anni, mille soli, mille lune…
Il becco amoreggia superiormente al capo in un fluttuare di candide ali…
Oggi ho avuto la pessima idea di visitare il Parco Reale. Il suono di questo nome m’ispirava, mi allettava l’idea di giardini deliziosi, di viali ameni e cascatelle rincuoranti. In realtà mi sono ritrovato in un parco per innamorati e le coppiette di fidanzati presidiavano ogni angolo d’ombra. Involontariamente, nel mio inseguire curiosità architettoniche, mi trasformo in una faina che disturba la quiete del pollaio. Le labbra si sottraggono a baci innocenti, al mio passare gli abbracci vergognosamente abbandonano anatomie proibite. Una fisicità molto compita a dire il vero. Mi sono sentito fuori luogo. Non aveva senso un riposo solitario all’ombra di alberi giganteschi; io sdraiato a riposare ed intorno il brusio di promesse eterne:
- Mio padre a Kengalle non sa ancora nulla di noi - Devi conoscere la mia famiglia - E’ tardi, ora. Il ritorno è incerto. - Tu sai quanto è difficile arrivare a Matale, a Dambulla-. Tu sai quante curve e polvere per giungere a Sigiriya prima di notte. - Tu sai quanto è buia la notte nella foresta - Io ho pregato nel Dalada Maliwaga di Kandy anche per il nostro amore… ed ho offerto fiori recisi-.
Chissà se i fiori mozzati sono speranze che si esaudiranno…
Anche questa sera gli alberi si scuotono dei fremiti della burrasca, e immagino i monsoni devastatori. Penso alle case non adatte a sopportare l’evento disastroso: cortili allagati, recinti divelti, le galline annegate tra petali di fiori. Resto in attesa della pace.
Ed ecco il miracolo. Il sogno si avvera all’improvviso. La pioggia si interrompe e la famiglia che mi ospita corre ridanciana sotto i primi raggi di sole.
La colla del sonno si è disciolta dalle palpebre. Al mio occhio riappaiono smozzicate fotografie e cornici divorate dai tarli. I ricordi, appesi al muro della stanza, si mescolano con i sogni disciolti nel sudore notturno. Improvvisamente il mondo mi appare diverso, prendo a prestito i tempi e i luoghi famigliari, gironzolo per la cucina e tra i fornelli a kerosene mi perdo a seguire le rughe nere delle formiche che tracciano le vie dei canti, sopra i lavelli azzurri e sbrecciati.
Parto all’alba diretto all’orfanotrofio degli elefanti: ottanta chilometri senza fine. Per prima cosa un autobus per Kengalle, quindi una sosta ad un incrocio anonimo ed infine l’arrivo a Pinewalla. Nella foresta vicino al villaggio decine di elefanti sono curati, allevati e impiegati per il lavoro nei boschi e per le cerimonie religiose. Respiro un aria da circo tropicale, ma osservando i piccoli nati è impossibile non emozionarsi, appaiono come perfetti replicanti delle loro madri. Il luogo è affollatissimo di studenti e turisti. Nel fiume, che taglia la terra rossa e delimita la foresta, le famiglie di elefanti si immergono nell’acqua sotto gli occhi di centinaia di persone. Un’arena acclamante, un sottofondo di clic fotografici, la curiosità impaurita di bimbi minuscoli e una folla di sari e sarong.
Le favole si inseguono. Fuggono tra i rami e le macchie le storie incantatrici.
Ritorno ad avvolgermi nella vibrazione di autobus giunti allo stadio terminale, utilizzati solamente dai contadini delle sperdute zone rurali. Arrivo in città scortato dai miei pensieri; osservo intorno a me famiglie vestite a festa, eczemi, elefantiasi congenite, sguardi di fuoco, candidi sorrisi e mani ruvide…un ciondolo d’argento povero luccica sopra la pelle marrone scura… poveri diademi e tinte accese dei sari.
I mendicanti nella via principale mi salutano riconoscendomi. Molte volte mi hanno visto passare, chinarmi e offrire rupie nelle stoffe sdrucite, nel palmo della mano, che velocemente si chiude al petto in segno di ringraziamento.
E’ domenica, il giorno di massimo afflusso dei pellegrini provenienti da tutta l’isola. Il giorno ideale per fotografare ritratti nel tempio.
Monaci color arancio - color mattone cotto al sole. Un ombrello per il caldo - un ombrello per la pioggia. Teste rasate e piedi scalzi. La forza della preghiera per alcuni è povertà - per altri è potere.
Pioggia: le calde piogge si susseguono ogni giorno alla stessa ora, alimentando questa terra fertile. In un attimo tutto è brillante, tirato a cera, un secondo dopo il sole evapora ogni pozza stagnante. L’uccello piglia-mosche sorvola le siepi con il becco aperto in cerca di prede. L’ibisco rinnova le rosse infiorescenze e le grandi farfalle prendono il volo, inseguite dalle ultime sfere perfette di pioggia raccolta, che scivola dal mangostano. Nel lago i pellicani tuffano il becco a scarpa per trattenere pesci a lungo braccati.
Salgo la collina, diretto alla statua del Buddha bianco che sovrasta la città. Nel tempio i monaci con gli abiti arancione spargono colore di primavera nell’aria grigia della tempesta. Durante la preghiera, le lucide nuche si grinzano nel collo a ogni oscillazione del corpo…
Pioggia ed alberi gialli di fiori. Fuggono nuvole nere. Il vento colpisce le stoffe inzuppate di pioggia. Pioggia e alberi rossi di fiori. Sorrisi luminosi e ceri accesi. I miei piedi scalzi calpestano la terra umida. Terra di tepore, terrore e tremore per ore ed ore. Rancore, dolore, amore per ore ed ore e troppo spesso spargimenti di sangue. La realtà allontana le favole e i profumi misteriosi…
Alberi giganti smarriscono l’ombra nel veloce tramonto.
Ratnapura
A Ratnapura il caldo è opprimente. Mi incammino per sentieri che si dipartono in direzione delle colline. Una strada sterrata passa accanto a piccole miniere di scavo; la ricerca di pietre preziose è continua e i metodi sono primitivi e faticosi. Le ampie voragini nella terra argillosa sono gremite di uomini minuscoli che scavano per giornate intere, senza interruzione, nella ricerca della pietra del secolo. Le pietre grezze non hanno nessun valore e i grandi mercanti le lavorano, vendendole quindi a prezzi esagerati. Gli uomini mi mostrano cristalli di zircone e piccole pietre chiamate ”occhio di gatto”: una minuscola perla che ha una striatura simile alla pupilla dei felini. La campagna è una lunga teoria di palme, alberi di frangipane e macchie di campanule d’ogni colore. Le case a un piano e le baracche formano i centri abitati dispersi tra le colline, tra chilometri e chilometri di verde intenso. Incontro un piccolo chiosco che vende noci di cocco e Sprite, la sosta data la calura è d’obbligo. I dialoghi, compresi sempre a metà, avvengono in un inglese approssimativo con i verbi coniugati all’infinito. La strada devia e raggiunge il fiume, tra le piccole pozze al riparo del flusso travolgente, le famiglie lavano i panni e la prole. D’improvviso il cielo si oscura e la pioggia anticipa la presenza giornaliera; in questa parte dell’isola le precipitazioni sono più frequenti …e me ne accorgerò a mie spese. Fulmini e tuoni sbucati non si sa bene da dove; in un attimo mi ritrovo fradicio di acqua calda, quindi sempre più fredda e per ore continua incessante. La temperatura scende bruscamente. Sono in condizioni pietose e neppure i tuk tuk, i risciò a motore, si degnano di darmi un passaggio, date le condizioni degli abiti intrisi e dei piedi infangati. Velocemente il sudore si trasforma in brividi.
Al riparo di una tettoia osservo la città e la copertura fatiscente è scossa da tuoni e dalla percussività della pioggia.
Ratnapura: la città delle pietre. Galleggia in basso come un miraggio subacqueo, un galeone sommerso. Le persone percorrono i marciapiedi allagati sospinte dalla corrente. Le foglie delle palme amplificano non una ma mille volte le frammentazioni di pioggia e tutto è avvolto da una cupola di vetro annerito, un cristallo opaco non ancora levigato. Lentamente, la meteora della notte manda tutto in frantumi, colpisce il mondo inabissato e nasconde ogni cosa.
Ore cinque antimeridiane
E’ un’alba di nebbia e pioggia a Ratnapura; le bancarelle appendono caschi di banane e sistemano perfette piramidi di frutta. Un raga indiano fuoriesce a tutto volume da un chiosco di fritti misti. La cappa grigia è spazio aereo per centinaia di piccole rondini, e gli uccelli, appesi ai cavi della linea elettrica si tramutano in preghiere di ali al vento. Preghiere che, al minimo accenno di traffico, migrano verso la foresta. Lascio le colline alla pioggia insistente. Le ore trascorrono aiutate da pratiche zen; divido la mente dalle sofferenze traballanti del corpo. Il caldo riempie il bus traboccante di gente. Il saliscendi è continuo in prossimità dei minuscoli villaggi, a tratti gli studenti per poche decine di minuti riempiono a turno l’autobus con le loro urla.
Nei muri tinteggiati di azzurro - riposano per sempre ali di farfalla. Piccoli motivi a ventaglio - coloratissime incisioni alate…
Habantota è la porta all’Oceano Indiano. Una piccola cittadina che si crogiola al limitare della foresta. La sabbia della costa, sembra impedire alla città lo slittamento verso il mare. La città è a maggioranza mussulmana… Mi sistemo in una Rest House costruita direttamente sulla strada principale, alla mercé del traffico continuo.
Il Parco di Bundala è a poche decine di chilometri e la strada che porta all’ingresso è popolata di ogni forma animale; un elefante esce dalla boscaglia e l’autobus si ferma, è una sorpresa anche per gli abitanti del luogo. Osservo l’animale incitato alla fuga dagli altri passeggeri, lo scoppio di ilarità si mescola al rispetto per il mastodonte. Il sole è perfettamente verticale sulla mia testa in un equilibrio stabile e torrido. Gli aironi si bagnano nella laguna alla ricerca di sollievo, con piccoli voli leggeri. Spiaggia, barche a bilanciere e maree.
Una nuova alba
Esiste un attimo, poco prima dell’alba, quando l’ibisco ha i fiori ancora avvoltolati su se stessi, quando il silenzio, per un breve tempo non è scalfito neppure dal fremere delle foglie. Un breve attimo di terra primordiale, abitata da spiriti silenziosi non ancora materializzati in insetti e cani. Un mondo di anime dormienti. In questo frammento del nuovo giorno neppure i profumi tropicali sono desti, le enormi foglie a ventaglio rimangono serrate e rigide pettinate all’insù. La terra è scura di umidità. Poi è sufficiente il lamento di un corvo per riportare tutto in vita, il gracchiare diviene allarme generale ed ogni forma vivente partecipa rumorosamente alla rinascita.
Nel villaggio di Tangalla, le capre, le mucche e i varani si disputano la piccole strade che portano al mare. La laguna nella notte vive una vita propria e misteriosa.
Ceno nel buio a lume di candela, attorniato dai rumori indecifrabili della foresta…rumori d’oltretomba.
Partenza per Matara e Mirissa e le nuvole si muovono veloci. La marea trascina sabbia finissima. Caldo e palme, miraggi, sogni e realtà…
Mirissa
I granchi eremiti fuggono all’alba imminente, tagliano con un percorso trasversale la sabbia e lasciano piccole impronte a pettine, una serie di microarature sulla rena livellata dal mare.
Trovo sistemazione in una piccola casa, non lontano da uno spazio protetto, ad uso e consumo dei turisti, uno spazio racchiuso, recintato. A Mirissa hanno ucciso una guida locale, e non si capisce se per motivi politici. Le morti politiche negli ultimi anni sono state centinaia e la stampa denuncia il coinvolgimento della minoranza tamil; ma non credo esista una vera libertà di stampa. I partiti politici contrari alle scelte governative non sono accettati alle libere elezioni e la realtà è difficilmente traducibile. Una risposta è tra questa povere capanne e le città polverose…le isole turistiche sono luoghi inventati, e intorno è il degrado che fa da padrone. Le località di passaggio sono demolite e in abbandono.
L’alba mi riporta la gioia dei vizi: il gusto della prima sigaretta e l’aroma di curry. Un grosso varano attraversa lentamente la spiaggia. Mi inoltro nell’entroterra, diretto ad un tempio sulle colline abitato dai monaci di Mirissa. Il tempio è devastato ma il dagoba è singolare: è adornato con teste di elefante scolpite nel basamento. Intorno, cumuli di macerie e abiti rossi stesi ad asciugare.
Weligama
Stradine mediorientali e case con balaustre di legno intagliato. L’aria è pervasa da musiche locali e la stazione ferroviaria è un’idea non ben precisa: gli orari sono scritti con il gesso sopra minuscole lavagne. Le carrozze stipate di gente transitano come carri di un circo di paese…
Le strette strade hanno merci mescolate insieme sui banchi di vendita. Suoni di moschee e tamburi buddisti, croci metodiste e barche da pesca e poi corvi, vacche, cani e un inatteso sibilo, caldo e vicino: un treno!
Palme e sabbia - buganvillee in fiore e famiglie di granchi laboriosi. Imboscate e ritirate intorno a umide radici…
I ciclisti, sotto la pioggia, portano carichi di noci di cocco e gli ovali di giallo-arancio solcano il grigio della tempesta. Le pozzanghere riflettono il caldo trattenuto dopo il piovasco improvviso, un tepore umido sale dal fango rosso al ciglio delle strade che seguono di pari passo il disegno della costa.
Un’isola vicino a Weligama, è il lontano ricordo di Paul Bowles, quando nella casa immersa nel verde scrisse “La casa dei ragni”.
La memoria è una dimensione che sembra non esistere da quanto è complicata la realtà. Mi chiedo: di quali memorie i cingalesi, riempiono i diari di bordo?. Le parole più ripetute: calpestato, vissuto, tagliato, reciso, spezzato. Dove sono i sentimenti intatti nella speranza? La speranza, risiede a volte nello sguardo attento di genitrici premurose, oppure nella cortesia dell’anziana signora che accende il ventilatore tentando di trattenerti nella povera casa. Nelle case private, corrono a fare la spesa solo quando hanno la certezza che ti fermi a cena ed occupi una, a volte l’unica stanza.
Gironzolo tra altari di Buddha e foto di famiglia, collezioni di ceramiche cinesi e tristi acquari con pesci invisibili. Mi muovo come in visita a uno scavo archeologico, cerco di tradurre i periodi storici tra gli arredi assiepati senza senso: quattro tavoli e due sedie, oppure stanze occupate da enormi divani.
I pensieri sono improvvisamente distolti dal ritorno dei figli del padrone di casa. Le divise scolastiche mi superano di corsa, sgualcite dagli anni più che da inseguimenti per gioco.
Vicino alla costa osservo i tanti fiumi che muoiono prima di giungere al mare. Forse è l’immagine che racchiude il senso di questi luoghi: lo scorrere interrotto, l’impantanarsi. La laguna abortisce il fluire impetuoso. Un blocco, un freno, una sosta, la fine prematura, l’impossibile salto finale, lo sfociare negato. Mondi separati. Da una parte la marea, che trasporta instancabile racconti di magia e scorribande corsare, e dall’altra parte è l’immobile stagno che non cela misteri e rimane muto, in una stasi che sogna rumori di cristallo.
La signora di Weligama
Un piccolo riquadro di terra. Una terra estorta al mare, che si è ritirato poco lontano, come vergognandosi di lambire quel giardino di fiori coltivati e generazioni di ragni. E’ rimasta una signora anziana a gestire la casa e le piccole tre stanze per viaggiatori occasionali. Trent’anni di lavoro, e i figli ora adulti sono dispersi in altre città dell’isola. Una nonna solitaria con il marito ammalato che vive a Colombo, con un non ben identificato “male ad una gamba”. Una donna dal portamento elegante nella sua semplicità. Un riferimento di stabilità per tutta la famiglia. Una partigiana che protegge un reparto avanzato… e le stanze di notte si riempiono di dolorose memorie. Museo di ricordi e fotografie ingiallite. All’alba lascia la casa per andare al mercato; oggi il ritorno è affrettato a causa della mia presenza: la colazione e la cena. Gli occhi si accendono di un celato orgoglio, ha dimostrato a se stessa che dopo tanti anni la sua cucina è palesemente apprezzata. E’ raro incontrare questi fortini nel deserto, queste pagine scritte ordinatamente, tra miriadi di scarabocchi informi e turbolenze di traffico. Questa è una zattera dove l’amazzone navigatrice non usa carte nautiche; il navigare a vista è un arte imparata per difendersi da coloni e viaggiatori, in questo piccolo paradiso, invaso più volte da eserciti stranieri: indiani, portoghesi, olandesi e inglesi…
La fragranza del tè contrasta con l’aroma del curry; l’ananas bollito sarà reso piccante dal peperoncino e ricoperto di cipolla da quelle minuscole mani. Le sue mani, meno precise di un tempo, fremono leggere. Il cuore è saldo, e il suo amore dispone petali di fiori in offerta alla mia presenza. Un omaggio. Un augurio. Briciole di tradizione. La casa degli insetti attende l’alta stagione e lo straniero solitario è solo un pretesto per rimanere allenati.
Al primo chiarore raccolgo campanule di thunbergia cadute, sono simili a bocche spalancate…ugole d’argento ghigliottinate dalla notte.
Weligama- Colombo
Il treno dell’alba è un dinoccolato serpente di carrozze, un treno per tutto simile ad un ammaccato giocattolo di un bimbo sbadato, un’ombra che avanza lentamente accompagnata da un sibilo acuto e ansimi ferrosi. La terza classe, la seconda, soltanto termini legati al livello di polvere e ruggine. Lentamente si incunea nel buio totale e io resto avvolto da occhiate curiose e mendicanti. Gli scossoni improvvisi mi strappano dal sedile rammendato nei secoli in vaghe decorazioni. Le porte e i finestrini, sono spalancati alla ricerca di ogni singolo alito di vento. Unawatuna, Galle, Hikkaduwa… Tra nuvole marce di foschia ecco lievitare i grattacieli di Colombo. La distanza rende la capitale una città dal disegno moderno…poi, chilometri di baracche indicano la mancanza di terra su cui vivere decentemente, e migliaia di persone sopravvivono in una Miami immaginaria. Le capanne sorgono tra il mare e la ferrovia in uno spazio limitato: dieci, quindici metri al massimo. Una piccola striscia di terra, dove maiali e bambini vedono iniziare e interrompersi lo spazio vitale, da un lato la marea e dall’altro lo sferragliamento.
Tuguri rabberciati di lamiera e plastica, canne e pezzi d’auto formano pareti, tetti, porte, e il tutto è impregnato dell’alito acido di una metropoli di cartone. Colombo è la solita, classica, caotica, convulsa invenzione che ti fa sperare di essere su “Truman Show”. Ma le piaghe dei mendicanti sono troppo reali.
La città è presidiata dai soldati. La tensione è causata dalla paura continua di attentati e i posti di blocco si susseguono nelle arterie più importanti. La via delle compagnie aeree è in assetto di guerra. In seguito scoprirò che l’area intorno all’aeroporto è minata. Quasi ogni giorno, i giornali riportano notizie di scontri armati nel nord del paese…
Nel tranello di ragni enormi costruisco sogni agitati.
Negombo
Negombo è la tappa finale del mio viaggio, è il luogo dove tiro le somme e calcolo le ultime rupie.
La città vivace è divisa tra le povere capanne dei pescatori e le vie interne, agitate di traffico e mercati, negozi e fiumi di persone. La strada che si allontana dal centro cittadino è un susseguirsi di hotel destinati al turismo organizzato.
Lungo la spiaggia, il mercato del pesce lievita nella sabbia arroventata, come un miraggio nel deserto. Piccole bancarelle improvvisate, sotto tettoie di legno e rami di palma, accolgono trance di grossi pesci, e i corvi svolazzano nel tentativo di rapinare piccoli calamari esposti. Le voci si fondono in un unico incitamento all’acquisto: grosse cernie e tonni, granchi, gamberi e piccolo squali. A volte le venditrici si servono di un ombrello per proteggersi dal sole, altre restano a incartapecorirsi con uno straccio logoro in testa. Sabbia e interiora ripulite da animali di passaggio… anche i cani si sono abituati a mangiare il pesce crudo. E’ un continuo sezionare e tagliare; le stoffe sono piene di pesce sistemato a essiccare al sole. Poco lontano le povere capanne risuonano dei giochi di bimbi che gattonano sulla rena polverosa. Nelle capanne sulla spiaggia gli arredi interni sono scatole vecchie trascinate dal mare. Assi che dalla salsedine sono approdate nella polvere; le baracche addossate sono carte da gioco messe in equilibrio a rappresentare un castello delicato. Il caldo tra i canali della laguna è insopportabile a causa dell’effetto lenticolare degli specchi d’acqua stagnante. La bassa marea scopre canali di scolo e putredini. Le palme in lontananza formano un argine da cartolina dei tropici, in realtà l’odore è forte e intenso e toglie ogni ispirazione romantica.
I pescatori della città discendono dai Kerava, una popolazione di origine indiana. La città ha risentito molto della presenza di chiese e conventi cattolici, Negombo è chiamata la Roma di Sri Lanka. I tabernacoli di vetro con le statue dei santi, a sera divengono luoghi di preghiera, direttamente sul ciglio delle strade. Campane, canti e incensi di diverse religioni, sembrano unirsi senza scontrarsi…e nell’aria sopraggiunge il canto del muezzin. Nel tempio induista di Dewasthanam si celebra, nel buio della sera, una cerimonia di ringraziamento. La mia presenza è tollerata. La promessa di spedire le fotografie al ritorno mi permette di rapinare immagini della cerimonia: piedi scalzi, ghirlande di gelsomino e l’immagine di Vishnu è portata in corteo su di un alto baldacchino ornato di fiori, di palme intrecciate e stoffe di mille colori. Il pottu, la benedizione tracciata sulla fronte con cenere sacra e pasta di legno di sandalo, risalta sulla pelle scura come una perla. La cerimonia termina con l’offerta di cibo: riso, ceci piccanti e una sorsata d’acqua versata nelle mani a coppa. Il canto e le suppliche, trasmigrano lentamente verso le stelle luminosissime e durante la notte ricadranno a terra sotto forma di pioggia.
Pioggia d’oriente. Tamburi in sordina. La terra respira e il mare mormora. Il vento massaggia vigoroso la palma - rimasta orfana dello scalpiccio dei corvi.
I tramonti non si rassomigliano mai
Il cielo si è tinto al tramonto di un giallo fosforescente, come ad anticipare una tempesta di sabbia. Una tonalità irreale filtra dalle nuvole, crea uno sfondo da artificio filmico, i corpi e gli abiti risaltano con forme tridimensionali. Ed ho capito perché l’uomo che affitta le biciclette mi diceva di non perdere i tramonti di Negombo: - Ogni sera è una scommessa di colori, dal viola, al rosso, giallo e ocra…-.
Combattere il caldo e gli insetti è una pratica eterna. E’ il primo gioco del mattino appena sveglio ed è l’ultimo sforzo serale.
L’anziano medico di Negombo
Il padrone di casa mi mostra orgoglioso i trofei dei suoi viaggi: un quadro del Papa e la foto delle cascate del Niagara. In un angolo della casa una bambola matrioska si è trasformata in un labirinto di tarme, disperde i colori sbriciolandosi ad ogni giro di pale del ventilatore di legno che pende dal soffitto. L’ambiente è così vissuto da essere distruzione generale. Mi chiedo quanti sono i sogni non tradotti in realtà che l’anziano medico porterà con se nel “passaggio”… Quanto peseranno le rinunce, le occasioni sprecate e i libri lasciati a metà; la piuma-segnalibro rimane a metà capitolo ad attendere la sua mano, ma la sua mano non riprenderà il filo del discorso scritto. I personaggi moriranno con lui e perderanno ogni senso, smarriti nella memoria priva di impulsi, nella febbre dell’oblio, nella stasi del tempo. La tela, con poche tracce di colore, resterà a indicare solamente un idea, una sospensione di tinte diluite nel bianco della stoffa tesa. La melodia si interromperà bruscamente in un agghiacciante silenzio. Le foglie rimarranno a coprire l’aia di sabbia, formeranno stratificazioni scricchiolanti e la terra non assaggerà più il rastrello fitto di canne di fiume legate assieme. Le piante del giardino sviliranno piegate dall’arsura e chissà se le piogge notturne saranno sufficienti a mantenerle in vita, libere di invadere ogni cosa. Chi può dire se in sua assenza continueranno ad infittirsi le mangrovie. Chi combatterà l’incedere del tempo nelle crepe dei muri, chi metterà freno allo sbriciolamento dei mobili. I ventilatori di casa diventeranno immobili giochi dei ragni. Lentamente, giorno dopo giorno, la ruggine bloccherà i cardini del grande cancello, salderà catene e sbarre formando un relitto irriconoscibile. Questa goccia noiosa farà ingiallire per poi bucare il lavello di pietra. I frutti del mango cadranno e marciranno al suolo, riempiranno l’aria di minuscoli insetti attratti dal miele. Il silenzio invaderà la casa. Le scarpe resteranno per sempre nel patio a colonne, rovesciate, sghembe, per un ultima volta tolte distrattamente. Il sarong steso ad asciugare sarà bruciato dal sole, si sfilaccerà perdendo la trama, le impunture, i ricami, l’identità. Le memorie; le memorie saranno la perdita maggiore, il più grande dolore. Chi ricorderà al tuo posto questo cielo di carboncino slavato e questo caldo colloso e umido?
In questa notte le solitarie luci irradiano un metro quadrato di strada polverosa, e lasciano indisturbata la foresta intorno…e questa casa.
Il pasto nudo…germogli di veleno, caraffe di fiele: il tutto è servito da un cameriere zoppo.
Le mie cene solitarie nei regni dell’assenza e dell’approssimazione, dove il buio è condimento primario e l’arrak è un grande compagno, che mi aiuta a rimettere insieme i pezzi di questo coccio frantumato… e rivivo rumori e discorsi, paure e incertezze, improvvisi piovaschi e i torridi viali di Polonnaruwa. I fiori aprirsi all’alba, i rumori della foresta che entrano nelle case, gli scoiattoli che si inerpicano e i corvi che banchettano negli arenili, appollaiati sopra teste di cernie giganti dalle orbite vuote. Capanne e case che ancora riportano sfarzi coloniali. Le zanzariere che tengono lontani zanzare e scarafaggi. I ventilatori sempre in movimento, notte e giorno. Il gusto del curry e del cardamomo, il cocco all’aglio e l’ananas in agrodolce, il pungere dell’arrak bevuto schietto. Il rumore della risacca ampliata dalla marea, i clacson e le imprecazioni. Le albe lente e la notte fulminea. La confusione di stazioni ferroviarie e autobus affollati. Le orme sulla battigia; passi lenti a snocciolare le ore. Il lasciarsi trasportare dalle onde, come legni di palma sradicati. Le occhiate, le pedanti richieste, i profumi e il lento marcire delle cose. I visi dei padroni di casa, scolpiti nell’orgoglio. Le gentilezze silenziose e quelle d’obbligo. L’aroma del tè, l’eterno ribollire di caraffe, i fumi dalle cucine a legna, che trasportano nella casa gli umori della foresta. Gli animali, di tutte le razze, in una terra priva di barriere. I varani si muovono tra i patii delle case. La prima notte, la seconda, l’ultima. Le immagini di persone incontrate nel breve tragitto, oppure smarrite dopo un saluto fugace e gentile. Sentirsi straniero, estraneo; una bianca variazione nella folla accalcata. Un’immagine riflessa, un ombra… mai anonimo. Tutto ti osserva, nulla di te viene perduto. L’attenzione curiosa degli alunni, che ti osservano mentre giganteggi in una classe di legno e plastica. La tenerezza, la comprensione, la rabbia…
Lion beer
Una birra al tramonto, lontano dalle strade trafficate. Mi sento “l’uomo che cadde sulla terra”, una terra che non possiede le mie memorie ma che ne farà parte. Dilapido le ultime rupie nel vizio, mi concedo una birra seduto di fronte al mare e osservo le barche a bilanciere immobili su di un tappeto di mangrovie. L’odore di cloro appesta l’aria, da qualche parte preparano una piscina per i turisti di domani.
Un corvo in riva al mare incita il sole a suicidarsi…ed io, tra poche ore, bucherò le nuvole con un volo ascensionale…
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