APPUNTI PER MEKONG TO ZERO
La porta sbatte
si chiude e serrata sbarra il transito
il flusso, lo scorrere…
Fuori
poco lontano
nasce una nuova storia…
altri visi, altre vite…
La barista con i capelli ossigenati e un cappotto scuro apre il bar. Ripassa il trucco pesante specchiandosi, nel tentativo di ritrovare parti del volto da restaurare, tra le pubblicità delle bibite incollate al vetro macchiato. Tina è stanca per il fallimento di una notte brava. Il telefonino appoggiato tra le zuccheriere da sistemare sui tavoli non suona da molto tempo. Desidera sentire il segnale di un messaggio in arrivo, vorrebbe percepire la cavalcata delle valchirie della suoneria, interagire con lo sbuffo del vapore in pressione della macchina del caffè. Distrattamente deposita un espresso in tazza grande sopra il bancone.
La porta del bar si chiude di scatto, l’avventore mattutino esce veloce e devia con un balzo per non investire due ragazzini.
I due fratelli vanno a scuola… Sono immigrati dell’Europa dell’est con gli zaini alla moda scoloriti ritirati dai pacchi di aiuti della caritas, in tutto e per tutto miniature d’uomini adulti sfigati. Il fratello grande attende il più piccolo insonnolito che lo segue come un cucciolo di cane smarrito. Marko lo incita ad allungare il passo. Entrano nell’autobus e si siedono negli ultimi posti, spettatori della consueta rappresentazione di ogni mattina.
Come ogni giorno Corrado si alza dal suo posto, sempre vicino alla porta centrale dell’autobus, alza il bavero e scende alla fermata dell’ospedale. Si inoltra tra le macchine in coda al semaforo per raggiungere il reparto analisi.
L’infermiere, che lo saluta calorosamente, è abbronzato dal sole tropicale delle vacanze fuori stagione e appare sospeso nei suoi pensieri cubani. Porta al collo una minuscola maschera di legno… residui di santeria e vezzo esterofilo.
Tornato a casa Giovanni accosta le persiane convinto di porre un freno al freddo della sera. Le serrande alle finestre calano con il rumore secco di scatti fotografici, otturatori giganti moltiplicati cento volte dall’altezza del grattacielo. Lui si accorge che le immagini esterne restano impresse sopra i vetri opacizzati dalla polvere impastata con gli acidi dei fumi inquinanti. Sopra le lastre permangono impresse le forme esterne e i riflessi sviluppano rappresentazioni prodigiose fissate nei granuli di pulviscolo elettrizzato. “Fuori la guerra e dentro il nulla di stanze incolumi ancora per poco tempo” – pensò Giovanni - spegnendo il monitor che trasmetteva le cortine di fumo delle bombe intelligenti.
Oltre l’angolo della costruzione medievale, la ragazza cinese vende ombrelli mignon dai colori primaverili, e Luigi pensò, guardando la mercanzia appoggiata a terra, che era strano perdere tanto tempo a guarnire stoffe con finti fiori dai colori sgargianti, per poi relegarli negli spicchi antipioggia destinati al tempo grigio rannuvolato. Il piede di Luigi per poco non rovinò la perfetta piramide dei parapioggia a serramanico. Era in ritardo e si ricordò improvvisamente dell’accordo, patteggiato la sera prima con Olga: - “Domattina ti porto il libro che mi hai chiesto”. Sorvolò l’impaccio dello scampato urto contro i messaggeri dell’inverno e accelerò il passo.
Tai Te Bin lo guardò rasentare i portoni alla ricerca di un riparo momentaneo allo scrosciare della pioggia. Per lei era l’ennesima alba umidiccia che poteva fruttare un irrisorio guadagno, eppure rimaneva fermamente convinta della sua decisione di non piazzare accendini scarichi e abatjour di Minnie con le calze a rete.
Oltrepassando la ragazza cinese, Antonio si riflette nello specchio del negozio alla moda sentendosi fuori luogo con l’impaccio evidente dei chili di troppo, concretizzati nella spessa cinta che ha abolito l’intaglio all’altezza della vita. Non è proprio tristezza la sua, con quello sguardo gettato di sbieco a sopracciglia arcuate, ma forse solo rammarico e la traduzione facciale della difficile accettazione di una natura che fantasiosamente modella le creature, diversificandole per renderle uniche – riconoscibili – e la natura con lui era stata eccessivamente generosa. Così ragionava distrattamente, circumnavigato dalle commesse che lo evitavano a malapena. Perché proprio a lui era toccato il ruolo dell’uomo grasso, tondo e simpatico – almeno questo era quello che gli altri dicevano. Quando rialza lo sguardo la sua immagine nello specchio aveva assunto le sembianze di un ragazzone palestrato con i muscoli in rilievo. Le forme scolpite erano un poco esagerate. L’invenzione della silouette del dio greco bombato eclissò Antonio nascondendo la sua ombra informe.
Poco lontano nella piazza del mercato la frutta ammaccata è depositata vicino ai cassonetti dell’immondizia, dentro scalcagnate cassette di legno. L’anziana donna si avvicina, cercando nel cumulo indistinto della frutta gettata via prodotti ancora commestibili. Agrumi per metà anneriti… Pianeti che mostrano l’emisfero in ombra scomposto in piccole muffe - canali marziani di penicillina - infiorescenze di marciumi - mollezze di pantani paludosi. La donna muove mani esperte alla raccolta per creare torte di frutta di terz’ordine.
L’umiltà di uno sguardo - estraneo al vivere veloce, preciso e perfetto di persone al suo fianco, senza mai una piega, inserite ordinatamente, prive di incertezza nell’incedere importante del passo sicuro. Al contrario Roberto era incerto, schivo, dubbioso di avere una natura materica, più prossimo all’idea di essere trasparente e insignificante bipede. Gli aitanti ragazzi e le bellezze con le gambe lunghe lo facevano girare di continuo, non tanto per un desiderio di somiglianza, oppure per una banale bramosia, non era cruccio o tormento, ma quasi il suo sguardo voleva premiare le figure inserite perfettamente nel contesto magico delle vetrine luccicanti e alla moda. Lui che moda seguiva? Non sapeva dire - incessantemente curato com’era da una madre prodiga e ingombrante nonostante le minute sembianze.
Non sapeva dire se in fondo al cuore fosse celato un senso di sconfitta e tutto lo spirito interno affermava di continuo la sua distanza dal moderno ritmo per lui estraneo…
Alla sera trascriveva canzoni stoppando ripetutamente il registratore, e spesso doveva riavvolgere il nastro perché la memoria lo tradiva, come avesse un buffer minuscolo dove posizionare le memorie recenti. La grafia incerta eccedeva in lettere complesse, la esse era un’informe serpente esploso, la erre spesso rasentava la pi nella forma, e quel che era peggio è che non riusciva ad andare in linea retta nel foglio, e il testo alla fine appariva come l’elettrocardiogramma di un cuore cagionevole. Quello era un passatempo - oppure qualche cosa di più, il contatto con parole che quasi sempre inneggiavano all’amore, al desiderio, all’abbandono: - e bionde e more ragazze, spiagge estive, calde di sole e ritmi cubani. Altre parole difficili che comprendeva a metà…
Si immedesimava nel cantore rauco che stornellava frasi d’amore appassionate - stanco di bugie meravigliose… e i fogli si impilavano ad altri fogli. Spesso stracciava le rime trascritte preso dalla stanchezza di seguire il vate canoro, troppo veloce nell’enumerare i nomi delle donne conquistate.
Emilio trovò quelle pagine rovistando distrattamente nel cassetto in comune con il fratello amanuense, e percepì un lieve dolore e il rammarico di non conoscerlo a fondo. Era forse troppo tardi per recuperare un dialogo che non c’era mai stato, distratto com’era nella giovane età che rimanda i problemi al futuro.
L’autogrill è svenuto sotto il sole a picco, l’aria immobile ha bloccato gli alberi in uno scatto fotografico avvampato dal controluce; Emilio ferma l’auto nel parcheggio di fronte al bar nell’area di servizio, spegne il motore forzando il movimento del collo per sgranchire i muscoli. Resta immobile un momento tentando l’iperventilazione prima di catapultarsi fuori dall’ogiva grigia che lo teneva prigioniero da duecento chilometri. Afferra al volo i fogli sparsi nel sedile di fianco e con un ultimo sforzo esce dall’abitacolo.
Il bar è semideserto e Emilio si siede al tavolo vicino al sistema di aerazione. Non molto lontano una coppia di anziani, marito e moglie probabilmente, osservano una carta stradale aperta sul tavolo e seguono con le dita incerte il percorso, quasi la strada fosse scritta in caratteri Braille; il dito dell’uomo segue quello della donna arrestandosi a tratti in prossimità delle città visitate. Come due ciechi accarezzavano la linea gialla di una strada provinciale…
Una ragazza sola, nel tavolo accanto, scrive distrattamente su di un quaderno aperto di fronte a lei e contemporaneamente con la mano libera digita numeri su di un telefonino. Emilio non vede il suo viso e le spalle indicano solo una figura graziosa lasciando il resto alla semplice immaginazione…
Ramona si alza non curandosi delle persone intorno e tanto meno del ragazzo alla sue spalle che rolla una sigaretta osservando i due vecchi. Rovista nella borsa, alla ricerca del portamonete, avvicinandosi alla cassa. Spinge la porta dell’uscita con fatica, l’aria calda dell’esterno è un muro - come un fantasma penetra la barriera e si dirige verso la macchina. Caldo - aria tremula – un cd di musica slava - la frontiera non è molto distante, e così pure la guerra…
Grazia apre gli occhi. Nel respiro pesante un persistente aroma di tabacco, misto ad acidi rimasugli di alcool pietrificato. Apre gli occhi lentamente ritornando nel mondo dei vivi. Ed ecco fissa nella mente l’ultima frase della lunga nottata: - un altro goccio e poi vado a letto.
Si sentiva snervata – stanca – e l’assillo dell’ennesima promessa: - devo smettere di fumare e tirare tardi. L’eterna ripromessa si arena dopo il caffè…
Non era stata una buona idea quella di mettersi il ciondolo alla caviglia, quel rumorino impercettibile ma continuo della pietruzza che sfrega il metallo - cimbalo antropomorfo.
Grazia voleva, come dire, normalizzare la sua appartenenza al mondo quel sabato mattina, indossando un vezzo da pochi soldi che potesse abbellire il suo portamento torpido e per un attimo immaginare, che l’oggetto etnico alla moda potesse trasportarla in una vacanza esotica e l’argento povero indiano dire a tutti che aveva visitato le terre dei sultani in un qualche lontano “stan” del cazzo. Era fermamente convinta che non sarebbe ritornata indietro per cambiare neppure un particolare del suo abbigliamento. D’altronde non l’attendeva nessuna giornata di gala, ma una semplice spesa al basko più vicino. Continuò a camminare desiderando che il traffico e il vocio celasse la ritmica sdatta che annunciava decisamente la sua presenza.
- Caviglia grossa, caviglia grossa…- era così che i suoi compagni di scuola la torchiavano ogni mattina, ed ogni giorno di più un difetto a lei sconosciuto aumentò sino a diventare elefantiaco.
Era incazzata nera – a rifletterci bene – e stanca di fuggire.
Se do un calcio al mondo – pensò - lo spedisco alle stelle.
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