India del Nord
Air Video
Il monitor di fronte a me trasmette immagini digitalizzate della penisola arabica, le linee nette dei confini demarcano divisioni territoriali mentre le aree ombreggiate vivono un continuo movimento e l’eterno ripetersi dei conflitti sposta e modifica la terra di nessuno. Le schegge di quarzo parlano arabo nel cielo medio-orientale. Nel visore scorrono pubblicità in lingue diverse, un mescolio sonoro che non si fonde mai insieme. In un angolo dello schermo è sempre presente la sagoma dell’aereo e la posizione della Mecca. Ad ogni istante la mezzaluna che indica il luogo sacro si sposta in un arido panorama virtuale, in una carta geografica bruciata dal sole.
Tra l’ingiallimento polveroso sbuca l’abbagliante Kuwait City. La città si concretizza in grattacieli bianchissimi. Le strade sono tracciate con una perfezione paranoica, gli archi di pietra e gli incroci s’intersecano apparendo drammatizzati dall’altezza.
…tutto attorno al deserto è il trionfo del nulla.
Tuniche e copricapi arabi si dilatano nell’aria calda. Le porte pneumatiche proiettano all’interno dell’aeroporto perfetti sultani con ventiquattrore di cuoio lucidissimo e barbe accuratamente arricciate.
Il pavimento di marmo e pietra lucida riflette l’avanzare svolazzante delle vesti. Gruppi di madri vestite di nero sono nascoste da un chador traforato e procedono dirette alla moschea destinata alle donne.
Piccoli bimbi arabi avanzano trascinati per mano dai genitori, il loro sguardo resta rivolto all’indietro, smarrito nella curiosità del mio viso pallido.
Dheli: ore cinque del mattino.
L’aspetto dell’aeroporto non è incoraggiante e tanto meno l’insistenza dei tassisti che formano un argine insormontabile, un posto di blocco di offerte insistenti. E’ la vera frontiera che ti strappa dalla sorpresa e conduce a forza su cassoni neri tirati a lucido, automobili di cinquant’anni fa. Il buongiorno è un augurio urlato da autisti di risciò e taxi. Un esercito di procacciatori ci assale; lasciamo senza risposta la prima offerta, poi la seconda, quindi una terza, allontanandoci sempre di più dalla confusione. Quindi, ad una proposta ragionevole, accettiamo il passaggio in città e il finestrino diviene uno schermo che trasmette un filmato sfocato dalla polvere: vacche sacre, biciclette, confusione, traffico, ingorghi. Le persone si muovono su strade caotiche tra le volute di fumo nero della gomma bruciata.
Inizia la piccola odissea nell’alba velata, sputacchiante, rumorosa, di Dheli…
Di fianco alla strada, che porta al centro della città, sorgono i campi profughi occupati dalla gente del Bihar; la regione è colpita dalla carestia ed i baraccati sono emigrati alla ricerca di lavoro.
Troviamo una sistemazione in centro città al Ringo Guest House: la via di mezzo tra un campeggio ed una serie di stanze minuscole con una piccola finestra inapribile.
Di positivo c’è un cortile interno con vasi di fiori scampati al diluvio universale ed una sfilza di lavandini all’aperto. Un uomo anziano ha in mano uno straccio più vecchio di lui, pulisce ovunque con un cencio che oramai non ha più un colore definito. E’ inginocchiato a terra; vita di paria, l’intoccabile. Le persone della casta più bassa preferiscono chiamarsi “dalit”, che significa calpestato…
Svuota i secchi dei rifiuti e mette da parte ogni oggetto lontanamente riutilizzabile: il manico di una pentola, un sacchetto di plastica unto, una stoffa strappata. Le sputacchiere alle sue spalle sono incrostate di betel.
I paria inginocchiati - tolgono macchie dai pavimenti di plastica...
Il labirinto di Dheli si apre di fronte a noi. Le offerte sono continue, dall’oppio alla coca e nel parco della città giovani ragazzi si aggirano per fare massaggi o pulire le orecchie con bastoncini di bambù, altri ancora si offrono come guide.
La casa del Mahatma Gandhi, la “Grande Anima”.
In una parte del parco è situato il piccolo altare dove è stato ucciso nel 1948. Le famiglie indiane visitano il luogo in un silenzio rispettoso e i giardini diventano un irreale paradiso di tranquillità, lontano dal groviglio confuso della città che è solo a due passi.
In una stanza il letto di Gandhi e le fotografie restano immobili ricordi coperti dalla polvere. Le poche cose del “padre della patria” trasportano memorie lontane nel tempo. Nel 1899 è in Sud Africa ad organizzare un corpo di ambulanze nella guerra anglo–boema, viaggia in tutto il paese per sostenere i diritti dei contadini e divulga il verbo della non violenza. Un ritratto della Regina Vittoria Imperatrice delle Indie. Un documento di Lord Mountbatten, ultimo viceré, che concede l’indipendenza nel 1947. Per alcuni storici l’Inghilterra decise di ritirarsi troppo velocemente, alimentando scontri sanguinosi dettati da odi e spartizioni territoriali. Le divisioni religiose e la tensione con il Pakistan portarono ad una netta separazione tra mussulmani e induisti.
In questa casa per molti anni sono penetrati rumori di conflitti, di lotte armate, uccisioni: la guerra contro il Pakistan per i territori del Kashmir, nel 1962 la guerra con la Cina, e poi ancora la difficile convivenza tra indù e mussulmani. La morte di Indira Ghandi, figlia del primo presidente Nehru. L’omicidio del figlio Rajiv. Il proliferare di movimenti fondamentalisti e regionalisti, il rafforzamento dei gruppi di destra.
La destra indiana è molto forte politicamente e nasce al tempo dell’indipendenza per contrastare la parte mussulmana della popolazione e le caste inferiori, a loro è imputato l’omicidio di Gandhi.
La storia si rincorre tra le stanze spoglie…
Ho una strana sensazione questa mattina, mi sveglio con una tranquillità nuova come se fossi a casa e neppure la colazione a base di banane mi appare così insolita.
Andiamo al Forte Rosso su di un risciò guidato da un ragazzo sikh. Il turbante nasconde i lunghi capelli annodati ed il suo viso, uscito da una stampa antica, contrasta con l’abito occidentale.
I sikh sono monoteisti e si oppongono alle differenze di casta, moltissimi sono autisti perché si dice che abbiano un’inclinazione alla meccanica molto spiccata.
Le folte barbe e il portamento austero denunciano una smaccata sicurezza.
La città vecchia, Old Dheli, ci investe a una velocità spaventosa, è vestita di confusione, di traffico e clacson ostinati. Le vacche sacre formano ingorghi sulla strada e osservano con aria ebete il mondo intorno. Lo smog, la gente, persone a migliaia. Macchie di colori degli abiti sgargianti, veli e tuniche e completi occidentali…una sfilata di moda surrealista.
Corvi sacri - mucche sacre - topi sacri - fiori sacri…divinità - preghiere e incenso. Soltanto l’uomo appare mortalmente vincibile.
Improvviso si materializza il Forte Rosso, Lal Quila, che è una delle massime espressioni dell’arte “moghul”.
Le mura si sviluppano per due chilometri e sono costruite in arenaria rossa con inserzioni di marmo, cupole a bulbo e minareti.
Il forte è un luogo di pace dove prevale il silenzio e un flusso composto di visitatori; gli abiti brillanti si mescolano alle pareti di marmo. Il via vai silenzioso lascia rapiti. Prati, fiori, uccelli e una brezza continua rilassa il corpo accaldato.
La costruzione risale al 1600 e le meraviglie architettoniche hanno retto bene all’urto del tempo. L’imperatore moghul sfilava per le strade a dorso di elefante e nelle incisioni è riportato lo sfarzo di cortei e cerimonie, i padiglioni interni sono decorati con mosaici di specchi e pietre preziose. La sala delle udienze è interamente in marmo bianco, il soffitto era ricoperto d’argento, ma purtroppo restano visibili solo alcune tracce dei preziosi fregi. Dal portico dei bagni reali osservo la parte vecchia della città…l’asfalto che brulica di persone ci sta aspettando.
Chandni Chowk: la via dell’argento.
La ressa nel frenetico andare e venire attrae e respinge al contempo, tenta di inglobare l’energia del singolo fondendola con mille altre. La folla è un’assemblea che seduce. Divieni parte del flusso che ricorda il magma mentre fuoriesce da un vulcano, un fiume che rompe gli argini e allaga ogni cosa, un tramestio di gente e ruote, mentre i banchi del bazar agonizzano sotto il sole.
Nella via si procede incolonnati a passo d’uomo. Voluminosi cartelli pubblicitari si stagliano al di sopra delle persone e le sproporzionate locandine dei film disegnati a mano sconvolgono l’orizzonte, gli enormi visi pitturati piangono storie d’amore finite. I lineamenti in tecnicolor sono un fondale da teatro. La scenografia irreale incorpora la gente che transita pigiandosi e rasenta le mucche che sfuggono per miracolo agli autorisciò scattanti. L’aria è un impasto di incenso e curry, smog e profumi pungenti.
Fiori cuciti in ghirlande profumate appassiscono sotto un sole inquisitore…
Sulle spalle il sole diviene un peso insostenibile. Visitiamo la grande moschea di Jami Masjid, la più grande dell’India. Entriamo a piedi nudi, la pavimentazione di arenaria è diventata brace sotto il sole, e balziamo come acrobati da uno spicchio d’ombra ad un altro. I minareti alti quaranta metri sono costruiti con arenaria e marmo, dall’alto il cortile della moschea è un immenso cratere pavimentato e le ombre umane scompaiono nel perimetro protetto dal sole. La vista spazia sulla città e non riesco a vederne la fine.
Uomini ossuti come esili alberi al vento…rami appassiti che pedalano.
Dalla stazione della Bikaner House partono gli autobus per Jaipur. Il risveglio precoce mantiene sonnolenti i dondolii del capo, una resina gommosa trattiene le spalle al seggiolino malandato. Il capo è libero di torcersi e mi trasformo nell’animale di gomma appeso allo specchietto retrovisore e accompagno gli scossoni imprevedibili. L’autista ha un rapporto preferenziale con il clacson, quasi maniacale, continua a suonare e non rallenta mai, né di fronte alle mucche, né tantomeno di fronte alle persone. La corsa è rallentata solo per inveire, a torto o a ragione, contro altri autisti altrettanto spericolati ed avari di gentilezze.
L’ambiente è arido. Le città e i villaggi sono oasi di pietra…
Stato del Rajasthan.
Jaipur si materializza in una lunga periferia polverosa. La città è annunciata da carri trainati da cammelli e le mura merlate, di un arancione intenso, sovrastano un paesaggio da fiaba. La favola è interpretata da visir in decadenza, ma nessuna magia può riportare le glorie del passato… La città vecchia è chiamata la “città rossa” per il colore delle mura che la circondano e le linee di calce bianca seguono esattamente il profilo delle porte e delle mura. Le strade sono trafficate da risciò a pedali, cammelli, vacche, taxi e fiumane di persone che comprano, vendono oppure barattano nell’immenso bazar.
Il giorno si è ristabilito in traffico e bancarelle e i cammelli trainano pesi incredibili. Il palazzo dei venti, l’Hawa Mahal, si eleva con i suoi cinque piani sul caos fumoso, la facciata ha le finestre intarsiate che permettono di osservare l’esterno senza essere visti. Un tempo le donne della casa reale da qui osservavano il mondo sottostante. L’arenaria traforata era il limite dell’universo conosciuto, la frontiera con l’esterno, un merletto di pietra colorata che le nascondeva al mondo. Il palazzo delle donne è stato costruito nei primi anni dell’ottocento e il restauro è avvenuto in maniera poco accorta, è stata dipinta ogni cosa di un arancione brillante, comprese le piccole colonne di marmo che meriterebbero ben altra fortuna.
Nella città vecchia, il Palazzo Reale è un enorme complesso di vari edifici d’epoche diverse. L’arte moghul è mescolata a caratteri propri dell’arte del Rajasthan.
Una bancarella vende l’acqua, un litro per una rupia, da un’enorme brocca inclinata su di un tavolaccio di legno, intorno a noi le scimmie si rincorrono nel palazzo ed io seguo pensieri che si squagliano al caldo.
Giochiamo con due bimbi. Ricostruiamo animali smontabili di plastica portati da casa, e il piccolo regalo colpisce i fanciulli che si allontanano salutando timidamente.
L’osservatorio astronomico.
I calcolatori di pietra non svelano più misteri d’altri tempi. Le meridiane si sovrappongono le une alle altre, tracciano stelle e moti dei pianeti, costellazioni e segni zodiacali. Il caldo è incessante come la sete. Fuori dal parco il mondo è sempre in attesa.
Saliamo sul tetto di un tempio e da quella posizione osserviamo il passato e il futuro agire insieme, per mano sfilano sotto di noi. I colori vivaci dei sari si stagliano sopra il grigio dell’asfalto colloso. Secoli, generazioni d’uomini, mondi orbitanti, abiti occidentali e piedi scalzi. Le ombre tremule trasportano profumi inebrianti, i colli lisci si ergono dai sari, e nelle mani aggraziate sbocciano gesti affascinanti in impalpabili saluti. Il portamento armonioso allontana i rumori, crea una barriera insormontabile e le ombre continuano a seguirsi in una danza stradale, nella semplice rappresentazione della vita di ogni giorno.
Ci disperdiamo nel grande mercato tra medicine ayurvediche, lattonieri, indovini e incantatori di serpenti. Banane e mandarini è il pranzo sotto il sole.
Si vive trascinati nel volo. Trasportati nel battere incessante di ali - in quest’India che non si posa mai.
Funerale metropolitano.
Avanza il corpo di un defunto in un sudario bianco. Sovrasta da lontano la folla. Il fardello spiegazzato è portato a braccia, seguito da un piccolo corteo che scioglie i pianti e le invocazioni tra lo stridere delle auto e l’incessante battere dei fabbri al lavoro.
La vita è merce di scambio tra l’assoluto ed il terreno…
Amber si trova a undici chilometri da Jaipur. Il palazzo-fortezza sorge sulle colline ed è un esempio tipico dell’architettura “rajput”. La costruzione è imponente. La strada che sale al forte è percorsa da elefanti addobbati a festa, sconsolati nel caldo avvolgente restano ad attrarre i turisti. Nella vasta sala degli specchi sostiamo alla ricerca di fresco e una famiglia di indiani ci chiede di posare con loro per una fotografia, abbozziamo una chiacchierata accompagnata da sorrisi e gesti di mani sinuose. Nel palazzo, tra i templi e le stanze del maharajah, si respira un’aria di favola come spesso accade nel Rajasthan: la “Terra dei Re”. Le scimmie giocano ovunque, lottano e si inseguono tra gli spioventi dei tetti di legno, le code lunghe e magre si riflettono in ombre ispide sopra i pavimenti di marmo.
Raga in dieci movimenti.
I
India – appare e scompare in un attimo – sei sicuro di vederla e d’improvviso non è più. Nel buio giochi ad immaginarla. In ogni spiraglio di luce è inconfondibile di fronte a te. Non è quell’idea che ti sei fatto. La realtà è diversa – è qualche cosa di più forte.
II
Se la inciti ti sbrana. Se la penetri ti supplica. Se fingi di non vedere ti entra dentro e ne farai parte per sempre.
III
Fango. Tanfi incredibili. Respiri di morte e bianchi sorrisi d’oro luccicante. Colori accesi. Cani smunti. Ventri obesi e bianche camicie. Mani callose e labbra screpolate. Inebrianti profumi d’oriente.
IV
Pelle sudata. Le mani sporche mercanteggiano fiori cuciti in ghirlande profumate. Zampilli scintillanti.
V
Luminosa arenaria di palazzi stupendi. Baracche e stracci. Sguardi dolci di donne bellissime.
VI
Fuoco di brace – acre fumo di sterco – gas e calore. Curry piccante.
VII
Ricchezze favolose riposte in luoghi segreti. Luoghi dimenticati da questo popolo che fugge di continuo – inseguito da ombre del passato. E corre sempre – perché sopravvivere significa allenamento.
VIII
Sul ciglio della strada - cani e ombre zoppe. I cumuli di stracci sono case e letti. Luogo natio e sudario di morte al contempo.
IX
La fine di questa strada non è visibile. Diseredati – colpiti da gesti gentili afferrano l’offerta e fuggono via.
X
Di dottrine e carestie…miti ancestrali. La morte quotidiana è regolata da formule incomprensibili e segrete. Pace. Pace. Pace. Di te si sente forte la mancanza – tanto quanto è desiderabile il dolore per il sadico incallito.
Partenza notturna per Jaisalmer e arriviamo nella fornace del deserto. La meraviglia che suscita è inaspettata e il palazzo–fortezza è addossato alla distesa di sabbia. Le case di arenaria gialla sono stupende, gli intarsi di legno e pietre addobbano le costruzioni. Le antiche residenze dei mercanti sono raffinati edifici con i tetti scolpiti e le statue di animali a difesa delle porte d’ingresso.
Le mura della città alta sfumano nel tremore della sabbia arroventata…
Il senso del tempo perde ragione d’essere, le epoche diverse si legano insieme e lasciano l’idea di vivere in un sogno. Sulla collina alta ottanta metri si erge il forte con i bastioni, all’interno le strade lastricate e gli edifici sacri suscitano visioni d’altri tempi. Nei meandri della città le strade strette si intersecano in un dedalo senza capo né coda, ramificate in vie senza nome. Il tramonto è cullato da un raga interminabile, e quella musica ipnotizza l’animo…
Oltre questa città - il deserto di dune si impossessa di ogni cosa…
Khuri: deserto del Thar.
Il villaggio e l’aria intorno sono immobili, in attesa di chissà che cosa, a due passi dal Pakistan. In questo luogo di carovane, cammelli, argento e seta, il mito si nasconde nella sabbia dalle guerre di frontiera. Il deserto del Thar è un’immensità dorata dal sole; le case e le capanne di fango e sassi si inseriscono in modo naturale tra le dune e le sterpaglie intorno.
Desert Guest House: la stanza è un cubicolo di fango e sassi. Da una piccola apertura, posta sopra la porta di assi di legno spezzate, entrano ed escono piccoli uccelli che si posano per un attimo e dopo un’occhiata curiosa volano via. Il recinto della casa è un’aia di polvere e stuoie rammendate.
Nel villaggio le donne restaurano le pareti delle capanne. Abiti splendenti e mani che impastano sterco e sabbia, lisciano il composto intonacando i muri, poi disegnano motivi geometrici che raffigurano simboli magici e religiosi. Edificano castelli di sabbia tra la sabbia. I cavalli di legno scolpito sono a protezione della casa, miracolosi portafortuna che tengono lontano il male.
C’è solo da attendere che il sole cali un poco per poter camminare senza svenire dal caldo. Al tramonto lasciamo la casa, ci dirigiamo verso le grandi dune; il paesaggio è sterile e fascinoso.
Nella sabbia del deserto risaltano i cocci dei vasi, i frammenti di terra cotta spezzati incrementano le nature perdute…vite infrante nel falso vuoto circostante.
Le donne con recipienti per l’acqua in equilibrio sul capo – nei colori accesi dei sari vanno dalle capanne al nulla dorato intorno…
Il pranzo misterioso è stato consumato in una delle stanze. Assaggiamo il vino del deserto: il liquore è ricavato dalla distillazione di una corteccia, acqua e zucchero. La curiosità della famiglia che gestisce le stanze in affitto a tratti è insistente ed è un continuo incitamento ad assaggiare prelibatezze del tutto discutibili. I cammelli ritornano nel fresco guidati da avvoltoi silenziosi. La pace serale è completa, i ritmi di vita sono gli stessi da centinaia d’anni: non un negozio, né pifferai magici, né danze per turisti. Un vuoto che trabocca di reale. Il regno della normalità.
I cani sbraitano al deserto e le donne sono al lavoro nelle case. Le farfalle notturne si immolano sopra i ceri accesi. Nel buio i pianti dei bimbi delimitano l’abitato, il resto è sospeso e lontano. Dormiamo sul tetto, sotto le stelle.
Alba.
Il villaggio al completo ci sta passando in rassegna e continuiamo a ripetere il nome, la nazionalità, lo scopo della visita a tutti quelli che incontriamo.
Le donne di casa cucinano per loro e per noi una colazione improvvisata; seduti sopra un tappeto sorseggiamo il tè mentre i bimbi si rincorrono.
L’India è un alimento carico di polvere e spezie - se spalanchi la bocca famelico ne resti soffocato.
Jaisalmer – Jodhpur.
L’aria calda entra dai finestrini dell’autobus gremito e ci incolla di fronte a sguardi insistenti e stupiti.
Jodhpur è velata nel torrido mezzogiorno. Visitiamo l’imponente palazzo di Meherangarh contornato da un panorama desertico. E’ situato su di uno sperone di roccia e la montagna si modella in merlature, nicchie e balconi scolpiti. L’onnipresente ritratto del maharaja vigila su tutto. Nel tempio di Durga riceviamo la benedizione sulla fronte, e dall’alto osserviamo le case tinteggiate di blu dei bramini.
Bastioni rivolti al desertico nulla. Avvoltoi e memorie di antichi corpi al sole. Tamburi riecheggiano nel silenzio.
Lungo la strada per Agra il territorio si produce in un graduale cambiamento, il deserto si va rinverdendo accarezzato dai fiumi. Coltivazioni, alberi e bufali al bagno nell’acqua color fango.
La città è sparpagliata sino all’inverosimile e a prima vista appare priva di un senso logico di espansione. Il Taj Mahal è il più celebre monumento dell’arte moghul, edificato da Shah Jahan sulle rive del fiume Yamuna, in memoria della moglie Mumtaz Mahal morta di parto. Il Taj Mahal e gli edifici annessi furono completati nel 1653. E’ una visione di candidi marmi che si riflette nella piscina interna contornata dai giardini. Dalla base di marmo e arenaria si innalza la struttura ottagonale sormontata da una cupola imponente e quattro minareti. All’interno le tombe di Mumtaz e del marito.
Partenza per Varanasi. Mughal Sarai.
Nella carrozza del treno i canonici quattro posti sono in realtà occupati da nove persone che ci scrutano con aria interrogativa. Proviamo ad accennare che il nostro posto è prenotato, ma gli sguardi di risposta non ammettono ricorsi, tutto rientra nella norma e sicuramente gli occupanti hanno atteso l’intera notte svegli per trovare una sistemazione. Il controllore, molto professionale, tira fuori dal cappello una soluzione: - ci sarebbe un piccolo scompartimento da due posti -. In realtà è una cella dove incastriamo i nostri zaini per le prossime quattordici ore di viaggio…leggendo, dormendo, sognando.
La polvere lentamente ingiallisce l’ambiente e prosciuga la gola. Respiriamo da ore polvere finissima di una tempesta di sabbia in miniatura.
A Mughal Sarai non riusciamo a trovare un posto per trascorrere la notte: le rooms della stazione sono solo per uomini, la sala d’aspetto è invece destinata a famiglie e donne sole.
Restiamo immobili ad aspettare il sonno, interrogati dai silenzi dei visi rigati di sudore terroso.
Dopo due ore un treno parte per Varanasi, il convoglio non ha posti a sedere per non sprecare spazio e un’ora di viaggio diventa interminabile.
La notte si veste di sari bianchi accalcati - dondolii e profumi intensi.
Varanasi.
Il nostro alloggio è nella città vecchia; le strette strade di pietra sono un reticolo di folla, templi casalinghi, venditori, vacche e cani.
Ci svegliamo all’alba, partoriti dal buio fresco che precede la luce del sole. L’oscurità lascia il posto a cumuli di cenere fumante e dentro i piccoli anfratti qualcuno ha improvvisato una cucina all’aperto. Soltanto i cani sembrano non dormire mai, seguono a coda bassa tutto ciò che si muove resi nervosi dal transitare dei topi. Il silenzio avrà breve vita, tra poco ogni cosa riprenderà a muoversi bruscamente, il fermento amplificherà i rumori e l’aria si stordirà del profumo di incensi bruciati a mazzi.
I ghats, dedicati alle molteplici divinità, sono scalinate che scendono direttamente nell’acqua del fiume, permettono di lavarsi e diventano approdo per le barche; scranni scivolosi dove gli uomini restano seduti con le gambe nell’acqua. Nel frattempo i ragazzini prendono la rincorsa e si tuffano dai moli.
Una barca silenziosa scivola sospinta dalla corrente, intorno è ancora scuro. Albeggia lentamente e la città è infiammata dal sole minuto dopo minuto…le forme riprendono ragione d’essere, l’arenaria si avvampa, il barcaiolo sbadiglia rumorosamente e le ombre umane ora riconoscibili iniziano le abluzioni. Qualcuno si lava i denti, i capelli, altri ancora salutano l’alba a mani giunte a coppa immerse nel fiume e poi portate alla bocca. Alcuni ruotano lentamente il corpo prima di lasciarsi andare dolcemente nelle acque…
Tutto accade nel medesimo istante, nello stesso luogo, con identico amore: gli abiti strigliati, shampoo e terra per i capelli, la schiuma dei saponi sul viso.
Scendono al fiume, pregano, trasportano ciotole traboccanti di fiori, si immergono insaponando il dhoti, il panno bianco che gli uomini si legano ai fianchi. Corpi, animali, petali tra le barche e gli scarichi, abluzioni e pratiche yoga. Si resta senza parole, attratti da pratiche sconvolgenti per la nostra cultura.
Sulle rive del Gange le meditazioni dei sadhu; i santoni indù che hanno abbandonato ogni senso del mondo e vivono in continua preghiera e raccoglimento.
Il Gange è la Madre Ganga, il veicolo sacro scorre giallo e fangoso, fluisce lentamente, appare come una lastra appannata dall’alito caldo di un mostro di fango che vive nelle profondità limacciose.
Spesso i monsoni distruggono ogni cosa e nel fiume si intravedono templi diroccati.
Il fiume si arricchisce di offerte colorate - petali e stoffe galleggianti.
Terre…in cui la morte è una vera liberazione. Nel rito della cremazione vi è un momento importante: l’esplosione del cranio. Importante perché la mente, in quel preciso istante, si apre all’infinito pensiero. I corpi ardono su pire di legno di sandalo. I cani ringhiano furiosi risvegliati nei sensi dall’odore di carne bruciata. Le mucche sacre transitano lentamente, come attori del teatro moderno passano in silenzio nella penombra del tramonto e spezzano la tensione generale.
Trasportate dal flusso della Madre Ganga, si perderanno nell’oceano le ceneri e i petali dei fiori. Viaggio delle nature, unite finalmente nell’unico momento di pace della loro esistenza. La morte in questa terra è una vera liberazione.
Antica Benares.
Le preghiere dei bramini si intercalano casualmente e il flusso delle parole diventa un unico brusio, un mugugno a spirale. Le onde sonore, imprigionate dal riflusso dell’eco, fuoriescono dai templi che sorgono lungo le rive e le facciate di arenaria si specchiano con difficoltà sul fiume.
Cani magri gironzolano nei templi alla ricerca di improbabili avanzi di cibo. Le mani tese sono petali screpolati, appassiti, e interrompono i miei pensieri. Uomini si trascinano tra il fumo e la polvere. Un mendicante privo di gambe si è attrezzato con un carretto minuscolo e si spinge tra la folla e le auto, protetto per un attimo da uno straniero curioso…per un istante divento il suo scudo.
Nella notte abbandoniamo un lume votivo a galleggiare e disperdersi lontano. La piccola fiamma lentamente raggiunge altri tremuli desideri di cera…
Il silenzio diviene compagno naturale, non riesco a trovare parole che possano lontanamente tradurre ciò che provo in questo momento. Nella notte le luci trasformano questo mondo in una irreale visione, gli unici rumori sono i crepitii dei fuochi accesi…
Il morto.
Sono vecchio e voglio morire a Varanasi. E’ sempre stato il mio sogno. Questo è il luogo ideale per morire. Molti pellegrini giungono a Varanasi per visitarla e alcuni non andranno più via…
Ho visto il tempio di Durga, il tempio delle scimmie, il tempio d’oro dedicato a Shiva.
Ora il mio corpo è avvolto da un panno bianco, sono disteso sopra il tetto di un’auto, la mia famiglia piange dietro di me e nella morte ascolto suppliche e saluti. Andrò a interrompere il ciclo delle rinascite al crematorio di Manikarnika, gli intoccabili poseranno il mio corpo sulla pira e il fuoco vincerà le lacrime e il dolore. Il mio sogno finalmente si avvera.
L’addetto al crematorio.
Le fiamme si alzano dai falò, producono crepitii e un mugugno profondo del fuoco. Le scintille vanno a ripopolare le tenebre nel cielo. La cenere del crematorio sprigiona ancora vapore e il fumo è un serpente impalpabile attratto da un incantatore invisibile. I corpi sono fantasmi immobili sulle pire di legno di sandalo. Corpi legati in sudari, avvolti stretti con stoffe gialle e arancio.
Corpi minuscoli dalle membra inesistenti…cadaveri di passerotti troppo cresciuti.
Il figlio.
Le ceneri di mio padre non andranno smarrite, hanno una strada precisa, vanno per poi ritornare trasformate dal vento in solidi diversi. Mattoni d’argilla contengono generazioni d’uomini e i sogni finissimi, impastati a mano, si trasformeranno in palazzi meravigliosi.
Da questo paese si corre il rischio di ritornare senza più essere capaci di ridere o di piangere.
Puri. Golfo del Bengala.
Partiamo a mezzogiorno diretti a Puri, nella regione dell’Orissa. Nella carrozza del treno, in compagnia di sguardi curiosi, critici e a volte supplichevoli, il giorno avanza lentamente cadenzato da incontri e saluti, arrivederci e definitivi addii. Inesorabilmente lo sporco invade ogni cosa, le persone si dispongono alla meglio tra le bucce, la polvere e l’acqua versata sopra il pavimento devastato del treno. Spesso mi afferro al libro che sto leggendo per distogliere lo sguardo dal mondo che incessantemente mi scorre davanti agli occhi, un mondo di meraviglia…sorrisi soffocati dal trambusto assordante. Dopo ventiquattro ore ci avviciniamo all’oceano. Il treno ha perduto irrimediabilmente ogni aspetto di decenza e avanza stancamente per gli ultimi chilometri con una lentezza esasperante. I finestrini sono rotti e le porte spalancate. Non appena il treno accenna un rallentamento sale un gruppo di bambini laceri a elemosinare ogni cosa possibile. Tre di loro si siedono nel sedile di fronte: la pelle è un sudario di polvere e sporcizia stratificata e le nostre caramelle, ultima e unica cosa rimasta commestibile, divengono in quelle mani offerte dai colori alieni.
All’ennesima sosta forzata sale un musicista cieco, arranca dal predellino altissimo lievitando nella palude di cartacce, indossa una tunica logora e cammina con il tipico incedere dei non vedenti. Gli occhi aperti lo fanno sembrare in trance, porta in mano uno strumento artigianale, una sorta di chitarra a una corda, formata da un barattolo di latta da cui fuoriesce un pezzo di legno e dall’asticella diparte uno spago legato al centro del barattolo. Il pizzicare è accompagnato da una voce inaspettata, di una dolcezza e intensità commovente. Nell’aria si dissolve il canto di una narrazione epica. Lo sguardo è fisso nel vuoto. Riceve piccole monete dentro il suo strumento immaginario e continua, ringraziando con un impercettibile movimento del capo, l’armonico susseguirsi di frasi cantate. Il viso si apre in un grande sorriso al rumore della nostra offerta metallica.
Ho incontrato un inviato del cielo - un messaggero di magie perdute e favole in disuso.
Golfo del Bengala.
A Puri incontriamo Rama e il suo risciò a pedali. Il ragazzo giovanissimo ci aiuta nella ricerca di un posto per dormire. Camminiamo insieme raccontando di terre oltreoceano. Puri appare nella sua massima espressione in questa giornata piena di sole. Il villaggio dei pescatori è un insieme di capanne con i tetti di palma, muri di sterco e pareti di legno. Il mercato di fronte all’oceano è immenso e il ritorno delle barche da pesca movimentano la spiaggia. Gli uomini mi invitano a varare un barcone ed io mi improvviso aiutante di scalo, tra risate e strette di mano.
…rincorrono il vento con le vele strappate…
Affittiamo le biciclette per andare al tempio di Jogannath: Signore dell’Universo e incarnazione di Vishnu. Il tempio è accessibile solo agli induisti; si sale al terrazzo della biblioteca per rubare qualche spiraglio interno. E’ una delle principali mete di pellegrinaggio di tutta l’India, e stupisce la torre a gradoni con le nicchie votive riccamente dipinte in smaglianti colori.
Il tempio di Jagannath viene chiamato il “tempio di tutti gli indiani” perché al suo interno non vige nessuna differenza di casta. L’impianto monastico occupa più di seimila persone con mansioni legate alle pratiche religiose, la pulizia e la sorveglianza.
Un gruppo di fedeli esce dal tempio con le giare colme di riso consacrato. La grande piazza brulica di attività religiose e commerciali, le bancarelle vendono omaggi propiziatori: sassi, conchiglie, incensi e collane di fiori. Gli indiani in pellegrinaggio sono accampati ovunque, ricoprono le scalinate e la strada con le loro povere cose, e l’aria è un ingorgo di profumi: pesce fritto, essenze, e aroma di tè. I mendicanti attendono le offerte sospirando di continuo: -“baba” – “baksheesh”-.
Vicino alla porta dei leoni la folla offre monete e cibo a un elefante bardato a festa; aiutandosi con la proboscide l’animale depone il denaro direttamente in una ciotola e accetta i gesti affettuosi delle carezze di bimbi microscopici.
Riprendiamo le biciclette lasciate nascoste tra le bancarelle. Allunghiamo l’elastico che ci lega al suono dei tamburi sino a spezzarlo. Di fronte al mare, nel buio caduto improvvisamente, rimane solo una eco distante e le brezze allontanano i misteri dei ritmi monotoni.
Silenziosamente - nella notte - sfila il corteo di un matrimonio.
Usciamo dalla città sfrecciando su di uno scooter malandato, fuggiamo dalla confusione e ci inoltriamo per le strade anonime della campagna, nelle terre di confine, le terre del “margine” che attendono l’invasione della città, del progresso, dello scompiglio.
Piccoli sentieri attraversano le piantagioni di palme da cocco, tra le pozze d’acqua e le capanne sulla polvere stanno vicini escrementi e chicchi di riso al sole.
Il turista diviene gioco e curiosità, i bimbi hanno imparato a chiedere ogni cosa possibile in più lingue straniere, ma il fare è rilassato e le richieste sono quasi dovute, di ruolo, il resto della popolazione dei villaggi è affabile e gentile, ilarmente curiosa non risparmia saluti e sorrisi.
Il gioco di deridersi è incessante come il cuore di battere - in un vita vissuta mille secondi ogni secondo.
Padri e nonni ci indicano figli e nipoti, e noi omaggiamo ogni minimo accenno verbale dei bimbi in fasce. Le lallazioni si mescolano all’incenso su questa strada d’argilla e polvere…
Villaggi di confine.
Tra le capanne scintillano pozze d’acqua con ninfee galleggianti e si alzano volute di fumo dai piccoli altari.
Il ritmo percussivo della tabla è un ansimo profondo che traduce preghiere e sacrifici, storie di bramini e rishi. Illuminazioni e tenebre eterne. Shiva, Krisna, Vishnu e Parvati, Durga e Kali. Pace e tragedia. Le conchiglie votive risuonano cupe e profonde, richiamano i pellegrini prostrati a terra nei loro gemiti di ringraziamento.
I bimbi imbellettati con il kayal attendono il pronunciare del loro destino da casta già deciso, corrono scalzi e magri tra il fango e i bufali. I più fortunati vestono pantaloni azzurri e hanno autisti per i collegi fuori città…per altri non è nulla di più che “l’assenza” e sogni mescolati alla polvere, per i più sfortunati neppure quest’ultima. Le vacche sacre cocciutamente puntano il muso lontano e lentamente si dirigono verso il nulla.
Tra le fauci di un cane - il becco di un corvo. Non esiste scampo - crescere o fuggire.
Inattesa appare la favola, l’angolo di un mondo remoto, improvvisamente il caotico momento si trasforma in leggenda sognata, in racconto di fiaba.
I sogni si materializzano in turbanti perfetti e le scimmie afferrano il biglietto che parla del mio futuro, divento parte di un popolo che vive nella dignità del sorriso aperto e nelle difficoltà mai nascoste.
Dove vi è gran dolore esiste anche l’amore all’ennesima potenza, la forza inaspettata, la cultura di millenni racchiusa nei racconti di vecchi canuti.
La pace ed il sorriso divengono esplosione nucleare in questa folla che sopravvive, in un popolo che serba grandi memorie, ricordi che raccontati ci annullano, disgregano le nostre certezze e le sicurezze degli eroi del sovrasviluppo.
Calarsi in mercati profumati…diventare profumo.
Nelle terre colorate diventare polvere, tra l’aroma delle spezie perdere la direzione. In uno sguardo, anche in uno soltanto, restare vivi per sempre e avere una grande punizione, il peso di un fardello enorme, il dovere di ricordare…e non solo per noi stessi.
L’ondeggiare di una musica accompagna la tranquillità. Non esiste nulla di più importante; mi sento materia che aumenta il volume di altra materia e incremento il substrato di sudore e oli profumati.
Piramidi a strati di petali di loto, sedimentazione d’incenso e addobbi di carta; la carta al prossimo acquazzone ritornerà alga putrescente in attesa della nuova vita. E diviene logico aver voglia di interrompere il ciclo delle rinascite e salire dove è negato il dolore ed è assente il pianto. L’asceta tende all’interruzione, allo stacco definitivo, sogna la lama del vomere che sradica in maniera definitiva il peso della carne. Superuomo diviene colui che desidera interrompere il susseguirsi delle impersonificazioni terrene.
Distruzione - morte e povertà. Luoghi dove regnano le sofferenze umane e dove i sorrisi diventano gioielli - regali inaspettati.
Kornak è un villaggio di poche case e molte bancarelle, accerchiato notte e giorno da odori di cibo fritto. Seduti al ciglio della strada, su di una panca scalcinata, resistiamo all’assedio dei bimbi e alle gentilezze delle famiglie indiane in gita.
Il Tempio del Sole sorgeva vicino al mare; ora l’oceano si è ritirato a tre chilometri. Si racconta che le rocce formate da materiale ferroso potessero attirare le navi a riva e la Pagoda Nera divenne un punto di riferimento importante per i naviganti. All’ingresso principale due statue di leoni aggrediscono gli elefanti: il tempio è dedicato a Surya, il Dio del Sole. Simboli e statue raffigurano miti religiosi e astronomici: Agni è il dio del fuoco, Chandra rappresenta la luna, figurazioni di Venere, Giove, Mercurio e Saturno. Il tempio riproduce il carro di Surya; alla base sono scolpite ventiquattro ruote enormi e sette cavalli imponenti trainano il carro del Dio del Sole attraverso il cielo. Sculture e incisioni si susseguono sino alla torre centrale che s’innalza a gradoni. E’ stato costruito dal Re di Orissa Narashimhadev I nel tredicesimo secolo, in ricordo della vittoria militare contro i mussulmani, ed è stato riportato alla luce scavando e togliendo la sabbia che nei secoli aveva nascosto parte della costruzione. Tre statue di Surya sono poste a incidere con il sole a mezzogiorno, all’alba e al tramonto. Alcuni pannelli scolpiti riportano bassorilievi di carattere erotico, detti Mithuna, figure femminili e raffigurazioni di amanti, in altri mandrie di cavalli, animali mitici, leoni e serpenti marini.
Nella notte le nuvole scure ricordano la stagione dei monsoni. Gli argini frantumati ritornano sabbia e sterco. La pioggia sconfigge le mani gentili che impastano sterco e paglia, sterco e sabbia. Le stesse mani ora avvicinano i figli al seno. Perle. Bucce. Spazzatura divorata da cani e corvi, corvi grandi come cani. Un insieme continuo, un materiale di vita, un impasto vivente privo di testa e coda, un’unione stretta. Gli uomini incollati gli uni agli altri da umori vitali e scopi simili.
Rotolare. Ruotare. Stramazzare. Ridere tra melodie di sitar e tabla, nenie e mantra. Il suono del cembalo nella notte di preghiera; ogni giorno lo stesso vibrare conduce alla ricerca di una vita nascosta.
Il sole ed i digiuni tracciano pieghe indelebili…
Sabbia e sabbia. Il quarzo, il corallo, ma pur sempre polvere fine che sconfigge il mio sguardo intento a penetrare le rughe segrete delle ombre.
Il colore acceso dei sari delle donne, nella costa del Bengala, è un’immagine di vita aerea, di leggerezza, uno sventolio di speranze.
La solidità delle madri - nel fuoco del sole implacabile che strappa smorfie dolorose al sorriso più sublime.
Vivere. Di che cosa si vive in luoghi dove si strappa con i denti, a forza, la pur minima idea d’ombra; l’ombra, la pace, la tranquillità. Stasi. Riposo. Un attimo di silenzio rubato al vorticare incessante tutto intorno. Dove è fuggita la pace, dove si nasconde silenziosa, così silente da correre il rischio di diventare muta per sempre. Questo è un esperimento a cielo aperto, tutto è spalancato dinanzi a me, e non ci si apparta neppure per defecare. Qui la vita e la morte mangiano alla stessa tavola ruttando rumorosamente insieme.
In una baracca di legno vicino al mercato di Puri vendono la ganja; l’infiorescenza della canapa indiana. L’odore dell’erba fumata si mescola a quello del pesce arrosto. Lungo la spiaggia i pescatori aprono le reti, si accavallano l'uno con l’altro tra la finissima sabbia. Richiami, urla di incitamento, e le donne ritornano al villaggio avanzando lentamente con la legna da ardere in bilico sul capo. Non esiste il riposo. Per quanto presto ti puoi alzare, il “tutto” è già al lavoro in un moto senza sosta, nella forza della sopportazione. Piedi scalzi percorrono chilometri e chilometri; torti-nodosi-forti calpestano incessantemente un continente immenso. L’India senza fine freme di zoccoli al piccolo trotto, di artigli che lacerano, di zampe che si trascinano.
E’ l’ora della suppliche religiose di fronte all’oceano, un’esigenza che si ripete ogni giorno e il mare riconduce ricordi del Gange.
Illuminazioni non ne vedo e le notti sono buie come da nessun’altra parte…
Bhubaneswar.
E’ la capitale dello stato di Orissa e i sessanta chilometri che la separano da Puri sono un susseguirsi di templi, dislocati nei villaggi oppure sperduti in un territorio riarso e scarso di vegetazione. La regione ospitava settemila templi, attualmente ne restano visibili cinquecento. La città è il centro della cultura tantrica, l’insieme delle dottrine di carattere iniziatico-esoterico tipico di alcune sette legate all’induismo e al buddismo.
Il tempio Lingaraj non è accessibile al suo interno, una terrazza posta di fronte ne permette la vista.
Le mura del tempio di Lingaraj racchiudono cinquanta luoghi di culto e piccoli santuari. Il luogo è dedicato a Shiva che è raffigurato con il “lingam”, il simbolo fallico. Il tempio principale vigila austero e predomina l’alta torre dello shikhar, che significa fiamma, la torre centrale è scolpita con il vertice a punta tonda, nella tipica architettura senza facciata che si ispira all’arte geometrico- simbolica.
Parsurameswar è un altro sito di templi dedicati a Shiva; è caratterizzato dalle colonne mozzate e dal classico tetto a terrazza si erge una piccola punta, da cui si innalza un’asta addobbata con stoffe colorate. Il parco ha piscine a forma di fiore di loto: sono costruite con gradoni che declinano nell’acqua torbida. Sculture di animali, nani, processioni di elefanti. Il leone che atterra l’elefante simboleggia la vittoria dell’induismo sul buddismo; le diverse culture e religioni si fondono insieme e si sovrappongono negli stili architettonici.
Sabbia e frammenti di conchiglie vincono la risacca. Vagano tra lacrime d’oceano trascinate dalle brezze. I ricordi d’alto mare affermano la propria natura, anche se ridotta in brandelli, violentata dal tempo, scomposta da forze avverse. Le intime memorie fuoriescono attratte dalla marea. Gli aquiloni si sollevano e tendono il filo dei pensieri…la mente resta a terra a difendere il passato, salda, ancorata con forte presa sul terreno. Al limitare delle terre d’oblio mi affascina il pensiero di abbandonare quel filo e allontanare il passato, sgombrare la mente, fare pulizia.
Intorno vite e ritmi, lavori e fatiche immani. Pedaliamo in silenzio respirando la vita che penetra a ondate e attraversa il corpo, lo scuote con fremiti elettrici e sospinge.
Rama ci accompagna alla stazione insieme ad un amico: - “volete vedere la mia casa? Vi faccio conoscere mia madre”-. La casa è una capanna al limitare di un laghetto in putrefazione, sua madre schiaccia in un mortaio piccoli semi e accenna un grande sorriso, non appena riconosce gli stranieri di cui il figlio le ha parlato.
…andiamo - non so se riuscirò a resistere - non posso ancora per molto soffocare un urlo ed un ringraziamento. Bisogna avviarsi. Le strade si dividono a questo punto…
Sul treno per Calcutta dividiamo le cuccette con una coppia indiana che non fa altro che mangiare, sbucciare, scartare e biascicare di continuo. Una coppia di indiani benestanti; il viso dell’uomo ricorda lontanamente Marlon Brando e la donna ha l’aspetto una balena arenata in un negozio di stoffe, dilatata negli strati del vestito, nel sari di seta e d’oro dei ricami…mollemente adagiata è in attesa dell’alta marea.
Alle cinque del mattino gli occhi sono sbarrati verso il soffitto. La coppia ci offre biscotti, noccioline e betel con l’argento. Un’altra famiglia ci vuole ospitare a casa loro, ma purtroppo abitano lontano da Calcutta.
I sorrisi sono rosse mezzelune stampate di betel…
Calcutta. Stato del Bengala.
I rumori sono cambiati, gli scatti metallici deviano il treno su di un binario morto e la velocità diminuisce. I campanelli accordati in squillanti vibrazioni coprono il suono delle parole. Le ombre della folla accalcata, le corse dei facchini e le mani tese dal finestrino segnano il ritorno alla grande città e i palazzi grigi occupano l’orizzonte. La spazientita genitrice di undici milioni di abitanti ci accoglie e non fa molti complimenti. Allatta la prole ma richiede sofferenza per ogni singola goccia di quel nutrimento.
Sulla riva del fiume i mendicanti stazionano con piatti di alluminio luccicante per il riso e l’elemosina. Tuffi e sorrisi e camere d’aria gonfiate a salvagente. Lingam odoranti di caglio e putredine. Poi ancora immagini sacre coloratissime, incarnazioni e verità cosmiche, rosso, giallo e arancione. Campanelle e lamenti funebri. E poi acqua, acqua, acqua. Che trascina via, scorre, penetra e corrode pietre alle case e figli alle madri.
Shyamal entra in città.
-“Il ponte di Howrah mi spinge dentro la città, sovrasta il fiume Hooghly che possiede un colore non annoverato in nessuna scala cromatica. La città è oltre quel ponte di ferro arrugginito dove ogni giorno transitano camion, auto, carretti e persone a migliaia. Gli uomini-cavallo trasportano bambini a scuola trascinando i carretti a piedi nudi. Questo braccio di metallo è un nastro trasportatore che scaraventa nella bocca di un altoforno minerali diversi e occhi, nasi, gambe, pedali, ciabatte, piedi scalzi, scimmie, vacche, cani, bufali, falchi e aquile. I motori assordanti e i suoni impossibili mi avvolgono come in una caverna rumorosa. Il flusso è eterno in questo regno di polvere, caste e sangue, incantatori di serpenti, pifferai, lebbrosi…bimbi che vanno a pulire i marmi degli alberghi. Al di là di quel ponte non troverò la mia casa, il mio bar di fiducia e non incontrerò gli amici d’infanzia né i parenti stretti. Oltre questo ponte troverò la fornace dell’universo, il serbatoio di pianti e sorrisi, la fabbrica dei sogni, la meta finale.
Mi getto a capofitto nell’invitante suicidio, nell’ultima speranza, nella città della gioia…e città del dolore”-.
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