venerdì 23 marzo 2012




L’Atlante geografico di zio Domenico, morto nel 1941 nella battaglia navale di Matapan, aveva impresso nella copertina la frase: Arma La Prora E Salpa Verso Il Mondo.


 
Ricordo chiaramente come tutto è iniziato; il ritrovamento di una lettera e poi di un’altra ancora spedite da Bengasi, e quel libro non mio sottolineato con richiami a bordo pagina scritti a matita, non sempre perfettamente leggibili.

Certo non pensavo all’epoca che poche tracce mi avrebbero portato lontano, avevo il dubbio se quella analisi era tentare di ritrovare un passato che non mi apparteneva, oppure se fossi fermamente convinto del fatto che non esistesse passato non mio, e ogni singola esperienza umana poteva diventare per me una memoria familiare sentita raccontare più volte.

Decisi che le rappresentazioni degli altri dovevano aiutarmi a trovare un compito, e le riflessioni di un uomo sconosciuto potevano avere il pregio di regalarmi una completezza, almeno momentanea… viatico per future terre.




Non mi annoiavo mai ad ascoltare i ricordi dei vecchi che raccontavano strade insabbiate ed angoli esposti alla brezza del mare, chiacchiere da piccolo bar incastrato tra un cyber café e un  beauty dog center.




La memoria singola come esperienza di gruppo, l’esperimento privato diviene rotta per altri, direzione da intraprendere, ed anche se la mèta non è stata raggiunta l’esercizio di valore è tentare di nuovo.




Univo le mie memorie ad altre estranee, e ricordavo perfettamente la Madonna di Lourdes; una bottiglietta di plastica bianca e celeste posta in alto sull’armadio dei miei genitori, riposta in quel luogo protetto, lontano dalle voglie di scoperta spesso distruttrici di un piccolo bimbo.

Quello è probabilmente il primo ricordo di un segnale religioso che non mi trasportò mai nell’estasi dei credenti.
Nella notte un fievole chiarore veniva emanato da quella bambola di petrolio trasfigurato e probabilmente quella visione per molto tempo alterò sogni in incubi e convertì le reminiscenze in rappresentazioni di favole. Nel silenzio mi parlava della Francia…
  
Altre immagini erano quotidianamente presenti nelle case del parentado, da Papa Giovanni al Cristo con la fronte sanguinante incorniciato in ovali di legno scuro e madonne con il bambino dipinte su ceramiche a lastre incollate sopra piedistalli vellutati.
Immagini sempre in primo piano quasi fossero istantanee di parenti stretti ed i santini pasquali abbandonati sopra il centrino lavorato a mano del tavolo buono della sala, altre volte appesi sghembi tra lo specchio ed il telaio del comò (sicuramente il primo francesismo usato abitualmente nella mia famiglia).
Visi nomadi tra la cucina ed i comodini delle stanze da letto; così conobbi don Bosco e San Giovanni Maria Gianelli, solo in seguito la moda dei posters sconvolse la casa e approdò Tito, Mao, Che Guevara, Marx. Per poi negli anni sovrapporre il dolore di San Sebastiano e i miti dell’India al sogno comunista.


  
Proprio il santino disegnato di San Sebastiano, dopo anni, vigilava la nudità disarmata di mia madre, e quella nudità mi investì con la sensazione intraducibile di un mistero svelato, era la prima volta che la vedevo fatalmente indifesa a mostrare incoscientemente il proprio corpo provato, scoperto, minato dalla malattia che in quei momenti non le lasciava autonomia. Il letto l’accoglieva convertendola in un ammasso spiegazzato di sottoveste slavata dal tempo; chissà quante volte aveva pensato di acquistare una veste da camera nuova per eventualità ospedaliere.

Glabra, morbida, rilasciata nell’infermità che manda via la forza di compiere in modo apprezzabile una qualsiasi reazione motoria decisa e articolata. Lei inconsapevolmente tentava di dare alla propria inerzia una sorta di eleganza e compostezza, e a tratti appariva serena anche se indifesa nel profondo.

Non è semplice essere figli - pensavo rimovendo pezze intrise dai suoi umori. Altri umori strutturati in misteriose fusioni mi avevano reso libero dall’amniotico cuscino che mi proteggeva un tempo in quel ventre ora piatto e minuscolo, tanto stretto e microscopico da gridare al miracolo di un passato fecondo. Chissà come fu annunciare alla stessa persona, ora prostrata e invasa dagli analgesici, che sarebbe stata madre per la terza volta.

Il catetere riempiva una goccia alla volta la sacca distesa sotto il letto, trascinando lentamente un colore giallastro sporco e bolle d’aria legate da un filo invisibile in una collana di perle trasparenti.
Come in un sogno mi ritrovai con lei a intavolare chiacchiere e il mio sguardo scoprì che era uscita dal dolore, ritornando alla vita. E ritornai ad essere preda di un telefono che annuncia i messaggi con una musica gaia – troppo gioiosa per la situazione…






Ho lasciato la finestra aperta, mi sono dimenticato il latte sul fuoco e in un attimo è entrato il vento – il latte è fuoriuscito – e sono inciampato – mi sono scontrato con l’esterno improvvisamente palesatosi all’interno del mio cranio… ho battuto il capo e ho ricominciato a sognare. 



Quando parte il tuo aereo – tra meno di un’ora – e allora proviamo in questo breve tempo a conoscerci – amarci – sposarci – invecchiare e morire… - così senza conoscere i nostri nomi – facciamo conto di vivere una vita in meno di un’ora – meno di un’ora perché nel frattempo sono trascorsi due minuti – e allora diamoci da fare – saltiamo la fase della corte e la promessa di vederci domani e passiamo velocemente con il dire quante volte siamo inciampati da piccoli e quante volte siamo caduti e quante ferite ci hanno fatto piangere – io aggiungo gli affetti che ci hanno fatto crescere e i malanni che mi hanno inchiodata a letto – e io ti racconto di quella volta che ho corso sotto la pioggia battente per fuggire a un mostro che avevo immaginato - io vivevo in campagna e andavo a scuola a piedi – io in città – la scuola era vicino alla chiesa tra i campi della curia e un rigagnolo filiforme adeguato solo per allevare girini – anch’io oltrepassavo un ponte e sotto scorreva un canale di scolo regno dei ratti solamente e le canne acquatiche quelle me le ricordo bene…

E io ti racconto della chiesa di San Pietro che alta sulla costa quella notte sembrava un’apparizione illuminata da se stessa e contrastava con il cielo nero profondo alle sue spalle. Tutto intorno la prima frescura della notte di novembre consolidava le cose e le case con una brillantezza gelida e distaccata dal fondale religioso.

Una coppia d’amanti tormentati nell’ombra cercavano di dirsi velocemente cose celate da tempo, ma lei non riusciva a parlare della sua condizione di amante ferita e dubbiosa, combattuta da un sentimento forse vecchio ed un altro quasi inedito.
Tentava di esprimere quello che provava, ma continuava ad avere difficoltà a pronunciare i sentimenti reali, era chiara la confusione che albergava nella sua mente.

Lui si sentiva di decidere per due, la voleva più forte e severa, avrebbe voluto essere schiaffeggiato, umiliato quasi, da lei che invece nella vita aveva accettato tutto o quasi quello che gli uomini decidevano…

Lasciamo che il tempo decida – diceva l’uomo -  che la lontananza ti faccia comprendere i desideri impronunciabili – il domani immaginato e incerto – lascia che le ore si accumulino come gocce di pioggia in una roggia primaverile – e poi capirai forse – oppure deciderai di tornare indietro – di fare un passo verso casa – e riaccendere un caminetto spento da poco che trattiene nelle pietre ancora il calore - e sotto la cenere una brace che forse ti potrà aiutare a far riattizzare quel grigio deserto di polvere.

Il faro della costa invadeva a folate di luce la roccia del fianco della montagna e lei diceva che l’ombra assomigliava a un grande uccello preistorico…

Lei lo prese per mano e di scatto lo trascinò via. Quasi corsero sulle scale di pietra ridiscendendo nella notte profonda in riva al mare. Per le strade non passava ormai più nessuno e da qualche parte si stava avvicinando il giorno dopo. Una nuova alba li avrebbe trovati lontani a riprendere posto nelle proprie vite…



Lascia la spina - cogli la rosa  
tu vai cercando - il tuo dolor.


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